Con questo ultimo disco i Mogwai trovano un raccordo conciliante tra gli aspetti più rumorosi, selvaggi e imprevedibili dei loro primi album e gli ultimi lavori che, invece, tendevano a sintonizzarsi su atmosfere più morbide, sintetiche e cosmiche.
In “The Bad Fire” i pulsanti e viscerali Mogwai della Terra incontrano e si riappacificano con i meditativi ed eterei Mogwai del Cielo, mentre le loro canzoni, come sempre accade, si prestano, con naturalezza, ad accogliere, inglobare, accudire e custodire i nostri sentimenti e le nostre emozioni più intime. Perché questa band non pretende e non ha mai preteso avere l’ultima parola, imporre la regola definitiva o dettare su quale cammino, più o meno inquieto, più o meno appagante, più o meno oscuro o più o meno o luminoso, debbano dirigersi e incalanarsi i propri ascoltatori.
La musica, con le sue divagazioni astrali, i suoi incalzanti e incisivi passaggi distorti, i suoi echi onirici e le sue improvvise e leggiadre aperture melodiche, oscillando tra sonorità post-rock, art-pop, space-rock e neo-psichedeliche, resta la risposta migliore alla paura, alla solitudine, all’abbandono e al senso di vuoto e di impotenza con cui tutti noi, purtroppo, siamo chiamati a confrontarci nel corso delle nostre vite. Altrimenti, se non fosse così, non saremmo umani. Ma la band scozzese, invece, oltre l’orizzonte ammaliante dei suoi synth, oltre gli accattivanti slanci elettronici, oltre le tumultuose tempeste strumentali, non fa altro che rammentarci il fuoco che vive, cresce e divampa sotto la gelida e spessa superficie delle incomprensioni, delle angosce, dei dubbi e degli impegni quotidiani.
Non c’è alcuna dimensione lugubre o luttuosa che la loro musica non riesca a raggiungere; è questa, in fondo, la grandezza e lo stupore che i Mogwai, dopo undici album in studio, riescono ancora ad esprimere, sia quando scelgono la strada espressiva sintetica e robotica, sia quando preferiscono quella più analogica e rumorosa, arrivando, nel frattempo, con rinnovata passione, alla conclusiva “Fact Boy”, una canzone che getta, a piene mani, i suoi scintillanti e luminosi semi di speranza nei meandri più bui delle nostre anime stanche e lacerate, aiutandole a guarire, a incuriosirsi, a scrutare, a chiedere e ad uscire dagli schemi teorici che le immobilizzano, spronandole a gustare e spendere, in modo autonomo e personale, il proprio significativo tempo, perché, purtroppo, le esperienze amare e dolorose sono anch’esse parte della nostra umanità.
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