C’è un suono che riecheggia nei sogni più cupi ed oscuri del rock alternativo o di quello che, un tempo, aveva ancora senso definire rock alternativo. È il suono di un futuro già preannunciato da coloro che hanno saputo interpretare le crepe nel muro, che hanno saputo leggere tra le righe della cronaca e riconoscere, dietro lo scintillio del progresso tecnologico e scientifico, l’ombra lunga del controllo. Un futuro distopico in cui l’essere umano è ridotto ad ingranaggio, prigioniero di una società sorvegliata, spersonalizzata e anestetizzata.
Quel suono è iniziato con i Radiohead, che, nel 1997, diedero vita a “Paranoid Android“, un brano psicotico ed alienante, un viaggio in una realtà deformata in cui il celebre verso “God loves his children” suona più come una minaccia, che come una promessa. È il canto di una società automatizzata dove l’individuo non è che un’entità frammentata, confusa e disperatamente in cerca di salvezza in un mondo ostile.
Anni dopo, gli A Perfect Circle avrebbero ripreso ed amplificato quel senso di apatia programmata con “Counting Bodies Like Sheep to the Rhythm of the War Drums“. Il pezzo, più di una semplice canzone, è un monologo distopico che ammonisce: “Don’t fret precious I’m here / Step away from the window / Go back to sleep”. Un invito sinistro all’obbedienza, al sonno della coscienza, in una società che elimina chiunque osi svegliarsi.
Nel frattempo, dalle brume trip-hop di Bristol, i Massive Attack lanciavano il loro messaggio criptato con “Future Proof“. Una traccia soffocante, quasi liquida, che sembra provenire direttamente da un sistema di sorveglianza totale, mentre la voce sussurra “You sure you want to be with me? I’ve nothing to give”, suggerendo un mondo disumanizzato dove i legami autentici sono impossibili e tutto è merce o illusione.
Se i suoni morbidi e crepuscolari dei Mazzy Star in “Into Dust” narrano la dissoluzione personale, la perdita del sé in una società senza spazio per le emozioni, “Dagger” degli Slowdive sembra descrivere l’apatia come atto di sopravvivenza. “And I’ll kiss you / I’ll miss you / Like a dagger in my heart” è il canto dolente di chi ancora tenta di amare in un mondo che ha smesso di “sentire”.
Ma prima che il sogno si dissolva del tutto, arrivano a squarciare il velo i Pixies con “Monkey Gone to Heaven“, una favola apocalittica travestita da pop surreale, in cui la natura e l’uomo sono vittime e carnefici di sé stessi: “If man is 5 / then the devil is 6 / and if the devil is 6 / then God is 7”. Una conta che suona come l’indice di un collasso imminente.
Subito dopo, i Sonic Youth, con “Schizophrenia“, affondano le mani nelle contraddizioni di una società frammentata e paranoica, tra deviazioni noise-rock e liriche viscerali. “I went away to see an old friend of mine / his sister came over, she was out of her mind” sembra il racconto casuale di una deriva collettiva, dove ogni legame è instabile e ogni percezione è alterata.
Ed è in questo scenario che esplodono i Nirvana, i cronisti più rabbiosi e disperati della generazione senza futuro. In “Something in the Way“, Kurt Cobain sussurra il racconto di un’esistenza marginale e invisibile: “Underneath the bridge / the tarp has sprung a leak”, metafora perfetta di una società che abbandona i fragili ai margini e si rifugia nella propria indifferenza. La voce rotta di Cobain non è solo una confessione, ma è un atto d’accusa verso una civiltà che promette libertà, ma poi pratica esclusione.
Dopodiché, il rumore si fa liquido con i Deftones, che in “Change (In the House of Flies)” trasformano l’alienazione contemporanea in una ballata tossica e sensualissima: “I watched a change in you / it’s like you never had wings”. Un inno alla perdita d’identità in un mondo dove anche le metamorfosi diventano routine anestetizzate. La rabbia repressa prende corpo con i Korn e con “Thoughtless“, dove Jonathan Davis racconta di marginalizzazione sociale e di alienazione, gridando “Thumbing through the pages of my fantasies”, come colui che cerca un rifugio mentale in una realtà violenta e indifferente. Un perfetto specchio per un’epoca che trasforma le persone in numeri e i sogni in statistiche.
Gli Stone Sour nella feroce “RU486“, titolo già di per sé provocatorio, incarnano la rivolta contro l’omologazione, mentre gli Alice In Chains con “Man in the Box” avevano già anticipato, negli anni ’90, il senso di prigionia e di asfissia esistenziale, confessando “Feed my eyes, can you sew them shut?”, come un grido disperato di chi non vuole più vedere, schiacciato dal peso di un’autorità muta e onnipresente. A raccogliere quel testimone sono arrivati anche i System Of A Down, che, con “Prison Song“, hanno trasformato la rabbia in un manifesto politico, svelando gli inganni dei governi autoritari e di quei sistemi penitenziari concepiti per annientare i più deboli. “They’re trying to build a prison for you and me to live in” è il mantra di chi riconosce, dietro ogni legge e ogni decreto, il progetto oscuro di una società incatenata.
Anche i Queens Of The Stone Age hanno tratteggiato visioni di un’umanità alienata e manipolata, con brani come “Go with the Flow“, dove il lasciarsi trasportare dal sistema diventa metafora di una resa collettiva: “I want something good to die for / to make it beautiful to live”. Un rock febbrile e disperato, in cui la libertà è un miraggio barattato per un conforto immediato. A quella stessa corrente di angoscia esistenziale appartengono i Soundgarden, capaci di mescolare rabbia e disillusione nei loro testi. “4th of July“, per esempio, è un’allucinazione sonora e apocalittica, dove la voce di Chris Cornell si dissolve in un paesaggio sonoro tossico e plumbeo: “I heard it in the wind and I saw it in the sky / I saw it in the rain / And it smelled of suicide”. Una visione profetica di un mondo prossimo alla dissoluzione emotiva e sociale.
A fare da ponte tra il rock e le sperimentazioni elettroniche più cupe, i Death in Vegas, con “Dirge“, hanno distillato una miscela di psichedelia industriale, narrativa distopica e groove ossessivi. I loro brani raccontano, infatti, mondi interiori corrotti e società al collasso.
Dal versante elettronico, il collettivo UNKLE con “Rabbit in Your Headlights” ha saputo descrivere magistralmente l’alienazione urbana e il controllo sociale, in una società dove chi dissente è un corpo dimenticato sull’asfalto, e la paranoia si fa voce interiore che ripete “You don’t wanna hurt me, you don’t wanna hurt me”. Infine i Chemical Brothers con “Saturate” hanno trasformato il dance-floor in un campo di battaglia mentale, evocando scenari di perdita d’identità e di annullamento collettivo. Le loro cavalcate elettroniche diventano colonne sonore di un presente iper-tecnologico dove la fuga è solo momentanea e il controllo totale è dietro l’angolo.
Questi brani, pur distanti per stile e per decennio, parlano tutti la stessa lingua, quella della paura di perdere sé stessi in un mondo dove il libero arbitrio è un’illusione, dove ogni movimento è tracciato, dove ogni pensiero viene catalogato, dove ogni desiderio è stato già previsto. Eppure, nel raccontare questa distopia, queste canzoni accendono una fiammella di resistenza. Sono la voce di chi si rifiuta di essere addomesticato, di chi — nel silenzio del futuro che incombe — ancora sussurra parole di dissenso. Perché se è vero che la distopia più efficace è quella che si fa routine quotidiana, è altrettanto vero che la musica può essere la scossa che rompe il ciclo.
Liberatevi, dunque!
E fatelo in maniera ECCESSIVA ed ESAGERATA.
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