C’è una musica che non suona per piacere. È un suono ruvido, ipnotico e ossessivo. È il doom metal, lo stoner-rock più viscerale, il dark-ambient che scava nelle viscere della psiche. E c’è un’arte che parla la medesima immaginifica lingua: quella di Zdzisław Beksiński, il pittore polacco che ha trasformato il dolore, l’angoscia e il silenzio claustrofobico dell’oppressione in immagini che sembrano provenire da un altro mondo, o forse da quello stesso futuro distopico che le chitarre ribassate e le voci cavernose raccontano in musica.
Nelle sue opere ci sono figure senza volto, bendate, mutilate, annullate nella loro identità. Ombre di un’umanità che ha perso il diritto di essere riconoscibile. Non è difficile immaginare che dietro quei volti coperti, strappati o dissolti, si nasconda la memoria di una Polonia asfissiata dal regime comunista, simbolo universale di tutti quei governi — passati, presenti e futuri — che tentano di controllare, di soggiogare, di manipolare e di plasmare i propri cittadini, spogliandoli della loro essenza più intima. È il racconto visivo di ciò che il doom metal sussurra nei suoi riff infiniti, che gli Sleep, gli Electric Wizard o gli Ufomammut scolpiscono come mantra laici: un monito su un mondo in frantumi.
Beksiński dipinge città che crollano, deserti che avanzano, edifici che si liquefanno in un mare di polvere e di carne corrosa. Sono paesaggi post-umani, che possiamo ritrovare anche nelle atmosfere rarefatte di un disco dei Neurosis, nei riverberi lunari dei Sunn O))) o nei riti occulti dei YOB. La sua pittura, dunque, è un suono: grave, senza melodia, con la tensione costante di un drone che non si spegne mai. È il doom dei sensi. E’ il ritorno dal baratro della fine, un’esperienza che l’artista ha provato in prima persona.
Ma c’è di più. Beksiński, infatti, sembra chiederci: “È il nostro mondo questo, oppure è un altro inferno, più subdolo ed ingannatore?”. La stessa domanda che ti lascia addosso un album come “Dopesmoker” degli Sleep, dove il tempo si dissolve in un rituale ossessivo, o come “Monotheist” dei Celtic Frost, capace di evocare un disfacimento interiore oltre il concetto stesso di redenzione.
Le immagini di Beksiński non sono solo l’illustrazione di un incubo. Esse sono il suono visivo della depressione, dell’isolamento, di quel malessere esistenziale che il doom metal e le sue diramazioni psichedeliche hanno sempre saputo tradurre in musica. Le sue tele sono la copertina perfetta di un concept-album apocalittico, la scenografia immaginaria di un live desertico al tramonto, dove le note basse e i feedback infiniti si fondono con un cielo cremisi e con rovine di architetture impossibili. Eppure, dietro il buio, c’è sempre un varco. Beksiński è stato sull’orlo dell’abisso, come i protagonisti di molti dischi metal, eppure ha trovato — o forse solo immaginato — una via per tornare. O, più probabilmente, per scoprire un altro inferno, più dolce, più confortevole, più rassicurante. Proprio come la nostra quotidianità, anestetizzata dalla ripetizione, dalla tecnologia invasiva, dalla paura del pensiero libero.
In questo, la sua arte – sia essa fotografia, tela o grafica digitale – e questa musica si parlano in un rapporto osmotico. Sono due modi di evocare il vuoto, di raccontare il collasso e di suggerire che, forse, da qualche parte, fra la rovina e l’eco di una chitarra distorta, possiamo ancora trovare la bellezza.
Vai alla gallery di Zdzisław Beksiński presso il museo di Sanok (Polonia).
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