Non può esserci sollievo in questo nostro mondo, e le trame doom e noise-rock intessute dai Wrekmeister Harmonies ce lo ricordano con una solennità che ha il sapore del deserto notturno e di città spettrali abbandonate dai loro abitanti. La loro musica è una lama che recide i molteplici strati artificiali con cui tentiamo, invano, di velare le nostre dolorose vicende umane. In questo disco — quattro brani, come quattro stelle spente in un cielo in rovina — ogni nota sembra pulsare di una trepidazione primordiale, come se il tempo stesso stesse cercando di ricomporsi in una forma nuova, originale ed incomprensibile.
Attorno a un nucleo oscuro e tremante si addensano synth liquidi e oscillatori impazziti, bassi distorti che sembrano il canto di profondità abissali, droni glaciali come venti che percorrono pianure siderali. Risuonano, quasi come echi lontani, frammenti di un passato alternative-folk ormai inghiottito dall’oblio, mentre arpeggi contorti e ossessivi di matrice post-rock tessono una tela fragile e vibrante, che sembra potersi spezzare da un momento all’altro sotto il peso della nostra stessa angoscia.
Eppure, è proprio in questa fragile architettura sonora, scossa da fremiti sperimentali e tensioni irrisolte, che l’album sussurra una verità antica: anche quando tutto attorno a noi appare sprofondare nel buio, l’intelletto e la fantasia riescono, ancora, a ritagliarsi un territorio comune, un luogo segreto dove rinsaldare quella forza invisibile e misteriosa che chiamiamo speranza. È una speranza senza luce, senza redenzione facile, una scintilla che sopravvive tra le macerie, nutrita dall’incertezza e dall’abisso.
L’intero lavoro sembra tentare di dare una forma sonora — aspra, metallica, a volte brutale — a quelle sensazioni sfuggenti che si agitano nel nostro inconscio e che, se ascoltiamo con attenzione, possiamo sentire vibrare anche nel mondo esterno: nelle leggi che governano i corpi celesti, nel flusso muto delle ere geologiche, nelle forze subatomiche che plasmano il reale, in quel magma irrazionale e caotico da cui, a tratti, esplode la vita stessa.
Quindi, nonostante la notte incombente della guerra, nonostante la smania distruttiva e il sangue versato con giustificazioni grottesche e incomprensibili — alchimie storiche, politiche, economiche, razziali o religiose — questo disco suggerisce il permanere di un disegno più grande, di una presenza che ci trascende e ci accoglie, di una spiritualità profonda che, pur nella sofferenza, continua a generare domande, voglia di esplorare, atti di creazione artistica. È quella stessa magia che costruisce paesaggi ipnotici, orizzonti surreali, mondi fantastici nei quali gli esseri umani possono ancora trovare rifugio dalle brutture e dal male. Una musica che non consola, ma che scava e rivela, che non offre risposte, ma amplifica il suono delle domande.
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