sabato, Maggio 17, 2025
Il Parco Paranoico

La foresta dei Cure: Lovecraft e i custodi felini delle soglie

C’è un momento, nelle notti inquiete e insonni, in cui il tempo smette di scorrere e l’aria, immobile e densa, sembra trattenere il respiro. È quell’attimo incerto, sospeso tra due battiti del cuore, quando il confine tra il sogno e la realtà si assottiglia, come una pelle sottile, fragile e trasparente, fatta di vetro antico e scricchiolante. È in questo preciso momento che le creature dimenticate ritornano a farsi sentire, strisciando fuori dalle pieghe nascoste dell’universo, dai recessi della memoria cosmica, dai corridoi infiniti dell’inconscio. È il regno di Lovecraft, delle sue antiche divinità dormienti sotto montagne senza nome, negli abissi siderali di una dimensione estranea che respira e osserva in silenzio. Ma è anche il luogo segreto dove vivono i gatti.

Perché, per Lovecraft, i gatti non sono soltanto semplici animali domestici, ma sono i custodi delle soglie, i guardiani di passaggi impalpabili, le creature capaci di scivolare tra le ere e le epoche, di percorrere i sentieri dell’invisibile con una grazia indifferente e imperturbabile. Nel romanzo fantastico “La ricerca onirica dello sconosciuto Kadath”, è proprio un esercito di gatti a soccorrere Randolph Carter nella sua fuga dagli orrori dello spazio profondo, attraversando città impossibili e cieli che grondano di antiche stelle dimenticate.

E forse sono gli stessi gatti cosmici cantati dai Cure, quelli che, nella notte, si trasformano in amanti, in memorie fluttuanti, in occhi divini che si perdono nei meandri oscuri del nostro stesso inconscio. La musica dei Cure — con le sue chitarre liquide, con i suoi synth eterei, con le linee di basso che sembrano risalire da grotte sommerse — è perfetta per evocare questi mondi felini, sospesi tra il concreto e il surreale. “A Forest” è il bosco immaginario in cui i sogni si smarriscono, il non-luogo dove un gatto nero potrebbe guidarti verso un’antica rovina di pietra, sussurrandoti all’orecchio i nomi dimenticati degli dèi. “Pictures of You” è il flusso malinconico di ricordi di un gatto immortale, testimone silenzioso della nascita e della morte di intere civiltà. E poi “Lullaby”, la filastrocca oscura e febbricitante che Lovecraft avrebbe sussurrato a Nyarlathotep, il caos strisciante, mentre lo accarezzava contro il cielo nero della perduta città di Arkham.

In fondo, forse, è proprio questo il senso profondo della musica evocata dai Cure: ricordarsi che il mondo non è mai davvero quello che sembra, che sotto ogni melodia, anche se dolce, anche se apparentemente malinconica e intima, si cela un abisso. Così come ogni miagolio nella notte può essere, in realtà, un richiamo ancestrale, un canto antico di mondi dimenticati. Ogni canzone è un portale, ogni sogno una città sepolta, ogni carezza un patto con ciò che sta oltre la fragile cortina della nostra comprensione.

E allora sì, “let’s go and throw all the songs we know”, come suggerisce “The Lovecats”, e abbandoniamoci a questa danza obliqua, viscerale e sublime, tra il suono di una voce simile alla pioggia che batte sui vetri della nostra anima e il passo felpato di una creatura che, molto prima di noi, ha visto sorgere l’alba del mondo. Perché forse, come intuiva Schopenhauer, in quell’istante in cui l’arte e la musica ci liberano dalla volontà cieca e dolorosa del vivere, ci è concesso di intravedere la verità ultima: un cosmo indifferente, ma meravigliosamente intricato, dove gatti, dèi e note si rincorrono all’infinito. Non è più necessario pensare per esistere, ma è sufficiente sognare, ascoltare e seguire i passi felini della notte, così da comprendere di essere parte di un disegno che sfugge alla ragione e si nutre di miti, di incubi, di canzoni sussurrate nell’oscurità e di visioni – come il quadro “Isle Of Death” di Arnold Böcklin – sospese tra la vita e la morte: un’immagine inquietante e magnetica, isolata ed eterna, preziosa ed enigmatica, che ci atterrisce e, contemporaneamente, ci rincuora suggerendoci la presenza di un gatto nero accovacciato su quella barca che attraversa le acque scure… 

 

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About The Author

Michele Sanseverino, poeta, scrittore ed ingegnere elettronico. Ha pubblicato la raccolta di favole del tempo andato "Ummagumma" e diverse raccolte di poesie, tra le quali le raccolte virtuali, condivise e liberamente accessibili "Per Dopo la Tempesta" e "Frammenti di Tempesta". Ideatore della webzine di approfondimento musicale "Paranoid Park" (www.paranoidpark.it) e collaboratore della webzine musicale "IndieForBunnies" (www.indieforbunnies.com).

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