Anima. Corpo. Mente.
E quell’energia primordiale che ne attraversa l’essenza, a cui diamo mille nomi e nessuno che le renda davvero giustizia, quell’energia che continua a determinare le nostre scelte, i gesti che compiamo e l’attitudine con cui decidiamo — o fingiamo di decidere — di affrontare il mondo. “Temporale” non è soltanto il titolo di un disco, è una soglia interiore, un luogo fisico, eppure inafferrabile, che abita dentro di noi, un’anticamera esistenziale dalla quale emergono pensieri e ossessioni, un palcoscenico invisibile dove proiettiamo le nostre paure, i desideri, i sogni infranti e quella scintilla di passione che ancora resiste sotto le macerie.
Le sonorità della band emiliana — sospese tra un rock nevrotico, emotivo, quasi febbrile, e un cantautorato che sa di confessionale notturno, sullo sfondo di un background post-hardcore melodico e magnetico — scorrono lungo le nostre sinapsi come scariche elettriche, trasformando i neuroni in corde vibranti. Chitarre, tastiere e fiati esplodono in un sound incalzante, che accompagna l’arido scorrere delle nostre giornate, dando forma a un’inquietudine che non trova né pace, né risposte.
Non va tutto bene, e non possiamo più fingere il contrario. Abbiamo smarrito quel senso universale che un tempo ci teneva ancorati gli uni agli altri e ci aggrappiamo, disperatamente, a visioni individualiste, sfocate, frammentarie, che si muovono come ombre distorte su pareti di caverne digitali. In questo scenario, il sogno — che i filosofi antichi e i mistici avevano elevato a luogo di rivelazione, a ponte tra il finito e l’infinito — si è trasformato in una prigione sensoriale. Un rifugio sterile, un altare di dimenticanza dove rinunciamo a sentire, a rischiare, fino ad abbandonare persino i nostri ricordi più intimi, quegli stessi ricordi che Schopenhauer considerava il patrimonio più autentico dell’individuo, e che oggi gettiamo via come zavorra inutile, dissolvendoli in un eterno presente algoritmico.
Cartesio, dal canto suo, aveva trovato nella “res cogitans” la certezza del pensiero e dell’esistenza, ma cosa accade quando il pensiero stesso viene delegato, derubricato a reazione automatica, a gesto riflesso indotto da immagini, da notifiche, da contenuti a scorrimento infinito? In quel momento non siamo più pensiero, né carne, né anima: diventiamo dati, unità numeriche in un gigantesco calcolo senza scopo.
Mnemosyne, canzone e concetto, è l’ultimo abbraccio alle origini, il saluto estremo alla memoria collettiva, alle radici che ci tenevano saldati a qualcosa di più grande, di più antico. È il commiato prima di perdersi in un oceano oscuro di frasi fatte, di momenti identici, di rappresentazioni digitali e ciechi programmi che non fanno altro che aggiornare banche dati, mentre la nostra volontà, il nostro coraggio e la nostra unicità si sciolgono nel nulla.
Non siamo morti. Eppure siamo scomparsi. E questo, in fondo, è assai peggio, perché da qualche parte, dietro qualche schermo, dentro qualche stanza buia del nostro stesso inconscio, qualcuno ne è ancora consapevole. E quella consapevolezza, sottile come una crepa in un vetro perfetto, potrebbe essere tutto ciò che resta di noi.
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