“Maps” è una creatura ibrida, mutevole e inafferrabile, un’entità sonora e visiva, nata come progetto live, ma destinata a travalicare i confini del palco e del tempo per addentrarsi nei territori più incerti ed inesplorati della percezione. Fin dall’inizio, la sua vocazione è chiara: sfidare l’apparenza, mettere in discussione il visibile e il concreto, scardinare le certezze sostanziali a cui ci aggrappiamo ed avventurarsi, con coraggio e inquietudine, nei meandri dell’ombra, del vuoto, dell’indicibile.
“Maps” è un atto di indagine sensoriale e filosofica, una ricerca che si affida a percezioni visive, acustiche ed emotive per indagare ciò che si cela oltre il velo dell’immediatezza e della superficie. Perché è lì, nel territorio incerto che separa il conosciuto dall’ignoto, che si nascondono i segreti più profondi, le verità rimosse, le bellezze mai concepite prima d’ora. È lì che la musica di questo progetto — intrisa di elettronica sperimentale, di ambient astratto e di post-rock immaginifico — si fa veicolo di rivelazione, di apertura percettiva, di trasformazione collettiva.
A sostenere e rafforzare questa tensione verso l’oltre, c’è l’idea forte di un’arte democratica, condivisa, liberata dai recinti delle élite culturali e restituita, finalmente, alla sua funzione originaria: quella di strumento universale di conoscenza e di emancipazione collettiva. Non più mera decorazione o intrattenimento, ma forza creatrice e catartica, capace di abbattere le barriere del linguaggio verbale e di condurci verso nuovi paesaggi percettivi e cognitivi.
La dimensione in cui i musicisti svizzeri Sinner DC e l’artista britannico Sonic Boom si muovono è lo stesso spazio liminale evocato da Borges, laddove le mappe smettono di rappresentare il territorio e finiscono per coincidere con esso, rendendo impossibile distinguere tra realtà e finzione, tra simulacro e verità, noi abbiamo bisogno di suoni, di immagini, di esperienze immersive complete, perché il linguaggio, per quanto raffinato e potente, rimane insufficiente e vincolato. Non riesce, se non per approssimazione, a cogliere l’essenza ultima, quell’intrinseca verità sfuggente che abita le cose e che solo l’arte — scevra da codici rigidi — può tentare di evocare.
In questo senso, le divagazioni sonore di matrice sintetica e post-rock non restano confinate nella loro dimensione musicale, ma si amplificano e si arricchiscono attraverso il dialogo con un contesto visivo e immaginifico altrettanto visionario. È qui che entra in scena il motore di gioco open-source ZDoom, opportunamente modificato dall’artista olandese Space Is Green e piegato a una nuova funzione: non più semplice strumento ludico, ma piattaforma di esplorazione estetica e filosofica. I suoi paesaggi digitali, surreali e perturbanti, diventano il teatro ideale per abbattere le barriere lessicali e comunicative, per spingersi più vicini al senso divino, ineffabile e multiforme della realtà che ci avvolge.
“Maps” non è solo un progetto musicale, né solo un’esperienza audiovisiva. È una chiamata alle armi per i sensi, un invito a smettere di guardare il mondo attraverso lenti opache e convenzionali, a superare i limiti autoimposti della rappresentazione, e a immergersi in quella zona di confine tra il visibile e l’invisibile, tra il detto e il non detto, dove forse — finalmente — si può intravedere, anche solo per un istante, il vero volto del reale.
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