“MIXology (volume 1)” è un album attraversato da un’irrequietezza elettronica che non si limita a suggerire atmosfere, ma che scorre come una corrente viva e fluida, assolutamente percepibile e tangibile. È un suono che non cerca di coprire o di lenire le nostre ferite, ma che vi si adagia sopra, con naturalezza, rispettandone i contorni, trasformandole, lentamente, in cicatrici: segni indelebili di qualcosa che ci ha mutati, che ci ha costretti a crescere, ad affinare il nostro sguardo sul mondo, ad ampliare il fragile, ma prezioso, bagaglio di conoscenze che portiamo con noi.
L’approccio di John Cale resta quello di sempre: sperimentale, vissuto, visceralmente sensoriale. Ogni nota, ogni parola, ogni vibrazione sembra possedere un radar emotivo innato, capace di orientarsi nell’atmosfera densa, opprimente e inquinata del nostro presente. “MIXology (volume 1)” non è soltanto un disco, ma è un gesto, un atto di presenza nel caos informe della contemporaneità. È il tentativo, riuscito, di testimoniare che esiste ancora uno spazio per le idee, per le passioni autentiche, per le intuizioni folgoranti e per tutti i sogni che rifiutano di farsi disinnescare dalla macchina produttiva e dimenticabile del consumo.
E proprio perché questo spazio non conosce alcun tempo, l’album si configura come un incipit. È la prima pagina di un diario aperto, destinato a continuare, nonostante gli 83 anni dell’artista, perché le idee non invecchiano e le visioni non si estinguono. In questo luogo immateriale, il passato e il futuro non si escludono, ma si raccordano, si fondono e si influenzano. I ricordi diventano presentimenti, e la memoria stessa — personale e collettiva — si fa sorgente di nuove energie, di volti che non abbiamo mai incontrato, ma che sentiamo assolutamente imprescindibili. Compagni e compagne di viaggio che vivono nell’intensità di un’immaginazione che resiste e che non ha bisogno di materia o consistenza per esistere.
In mezzo alle atmosfere suadenti, fluttuanti e a tratti ipnotiche che John Cale orchestra con la consueta eleganza iconoclasta, ciò che resta, ciò che si impone davvero, è la spiritualità. Non quella codificata e ripetitiva, ma una spiritualità selvaggia, istintiva, radicata nella materia stessa del suono e della parola. In “MIXology (volume 1)” non c’è spazio per le estetiche di facciata, con cui la nostra società consumista e neo-liberista tenta di sostituire gli ideali, le filosofie o le emozioni. Non c’è posto per le retoriche vuote del nuovo a tutti i costi, della produttività fine a sé stessa, del consumo compulsivo che si rigenera, incessantemente, nel medesimo ciclo sterile di produzione, pubblicità, obsolescenza e scarto.
John Cale è una meteora che attraversa un cielo nero pece. Una scia luminosa che conserva intatta la memoria della pop-art, del rumore proto-punkeggiante dei Velvet Underground, della sintesi poetica che ha saputo rendere le parole leggere e taglienti, musicali e sconcertanti. È ancora, dopo decenni, una fonte inesauribile di ispirazione per chiunque voglia davvero guardare oltre le forme rigide di una realtà sempre più surrogata, plastificata, virtualizzata e svuotata di umanità. In questo primo volume, il suo sguardo resta fermo, vigile, capace di trasformare ogni suono in un atto di resistenza e ogni parola in un amuleto contro l’appiattimento. Perché la musica — quando è arte, quando è pensiero, quando è esperienza sensoriale e spirituale — può ancora insegnarci a rammendare le ferite e a custodire dentro di noi la testimonianza di ciò che conta davvero.
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