Pier Paolo Pasolini, nel suo “Il Fascismo degli Antifascisti”, scrisse che “il vero fascismo è quello che impone un pensiero unico camuffandolo da pluralismo“. Un passaggio assolutamente attuale e profetico. Queste parole, infatti, scritte per un’Italia che si illudeva di aver eliminato ed archiviato ogni assurda tentazione dispotica ed autoritaria del proprio passato, sono ancora valide per questo nostro presente in cui il totalitarismo non viene più imposto tramite i metodi violenti delle camice nere, ma con quelli più subdoli delle intelligenze artificiali, degli algoritmi che creano e suggeriscono nuovi trend alla moda, delle voraci logiche di mercato e di una pervasiva e trasversale egemonia culturale di matrice relativista.
Noi, infatti, stiamo sopravvivendo in un eterno presente, basato sulla estetica superficiale, in cui ogni concetto è opinabile, tutto è ipocritamente neutrale e, quindi, può essere, contemporaneamente, sia vero, che falso, purché, ovviamente, non metta in discussione i presupposti, le leggi ed i meccanismi su cui si regola questo sistema. Le potenti big-tech americane, con i loro immensi regni digitali, non influiscono solamente sul mercato e sulle sue regole, ma riscrivano anche le coordinate culturali, linguistiche, sociali, mediatiche, economiche, etiche e politiche delle nostre esistenze. Coordinate che ci impongono una direzione, che ci “suggeriscono” cosa sia accettabile e cosa no, cosa sia buono e cosa no, cosa sia giusto e cosa no, cosa sia visibile e cosa no, cosa sia acquistabile e cosa no, relegando tutto quello che non ritengono opportuno, per i loro scopi e le loro finalità, ai margini dell’indicizzabile e, dunque, del conoscibile. Il relativismo totalitario è il nuovo paradosso e la nuova ortodossia.
Siamo immersi in una verità fluida, in una dimensione liquida ove ogni posizione scomoda va eliminata, annichilita e neutralizzata, non attraverso il sano confronto, ma disperdendola e dissolvendola in un oceano di possibili alternative, in un immenso spazio virtuale di gigabyte di dati e di informazioni ridondanti, finché essa, inevitabilmente, perde di rilevanza, di peso, di significato, di mordente. Questo fascismo è molto più pericoloso e micidiale di quello del Novecento, in quanto non si mostra mai come una repressione diretta, ma, invece, preferisce configurarsi come espressione di libertà: puoi dire tutto quello che vuoi, puoi scegliere tutto quello che vuoi, puoi fare tutto quello che vuoi, purché non serva davvero a cambiare qualcosa, purché non intacchi il loro potere, la loro influenza e le loro ricchezze.
Eppure, fortunatamente, come sempre accade, in ogni epoca storica, c’è chi si ostina a resistere, c’è chi tenta di scardinare e di smascherare questa egemonia virtuale, meschina ed impalpabile e, spesso, lo fa attraverso il linguaggio più antico, diretto ed universale, quello della musica. Tanti artisti rifiutano questo sistema di controllo e di manipolazione e tentano, con la loro arte, di mettere in evidenza le feroci contraddizioni di una società che appare inclusiva, solidale, giusta, sicura e pacifica, ma solamente in superficie, perché, oltre il velo di falsità, essa è profondamente esclusiva, elitaria, ostile, divisiva e malvagia.
Angélique Kidjo, musicista originaria del Benin, nel 2018, ha reinterpretato, a suo modo, l’album “Remain in Light” dei Talking Heads, integrando, nelle canzoni del disco, le tradizioni musicali africane e i paradossi politici dell’Africa moderna, così da offrire agli ascoltatori una prospettiva diversa, alternativa, intrigante ed interessante, dell’appropriazione culturale e dell’identità globale. In Italia, su una lunghezza d’onda simile, si muove IOSONOUNCANE, un artista visionario, che costruisce un discorso sonoro sperimentale, innovativo e stratificato, in grado di mescolare rock alternativo, cantautorato italiano, elettronica ricercata e melodie di matrice mediterranea, evocando l’immagine di un continente, quello europeo, che è sempre più simile a una landa desertica opprimente, stanca, frammentata e malata, in cui le persone comuni sono in perenne ed estenuante competizione tra loro.
Tornando indietro di qualche decennio, a Seattle e a ciò che resta dell’epopea grunge, è ancora viva l’eco elettrica e ruggente dei Soundgarden, che scavavano nelle certezze e nelle angosce delle masse di un’America convinta di governare il mondo intero, esprimendo quello che era il disagio di una generazione inquieta, la generazione degli anni Novanta, che, oggi, è debole, fragile, insicura, distaccata, povera, sola. E riavvolgendo ancora il nastro magnetico della nostra ideale musicassetta, arriviamo alla infuocata fine degli anni Settanta e ci scontriamo con il punk leggendario, crudo e viscerale dei Dead Kennedys, la cui musica fu una vera e propria scarica elettrica nei confronti del perbenismo, ipocrita, bugiardo e falsamente democratico, del sogno a stelle e strisce. Nel 1980, il loro celebre album, “Fresh Fruit For Rotting Vegetables”, demolisce, con vibrante sarcasmo, il diabolico Cerbero le cui teste rappresentano le bugie delle istituzioni governative, le violenze perpetrate dalle forze di polizia e il conformismo coatto della middle-class americana.
Altra brillante fusione di rock e di musica popolare è rappresentata dai musicisti tuareg del Mali, i Tinariwen, che, con il loro magmatico ed appassionante desert-blues, hanno trasformato la musica in uno strumento per raccontare l’esilio, la resistenza armata, il colonialismo post-moderno e la lotta per la sopravvivenza di un popolo che, sfuggendo ai radar economici e finanziari dell’Occidente, risulta, purtroppo, essere inesistente. Finiamo il breve viaggio musicale con i Fun-Da-Mental, una band britannica che combina, mescola ed intreccia sonorità etniche, hip-hop, ritmiche proprie della word music e riverberi dance di stampo moderno ed elettronico, con l’obiettivo di amplificare e di diffondere le proprie posizioni sociali e politiche, finalizzate al raggiungimento di una vera, concreta, reale giustizia sociale, svincolata da qualsiasi forma di pregiudizio razziale, etnico, religioso o culturale.
Quindi, ci sono artisti, nel nostro mondo, che non si limitano a registrare l’esistente, ma che cercano di destabilizzarlo e di generare corto-circuiti cognitivi, emotivi e sensoriali. Queste persone tentano di riportare il conflitto nello spazio pubblico, concreto, vissuto e veritiero della cultura. Perché, come ha intuito e ci ha brillantemente spiegato Pasolini, il fascismo moderno consiste, soprattutto, nella cancellazione sistematica di qualsiasi forma di vera dialettica, nonché nella riduzione di qualsiasi protesta, qualsiasi domanda, qualsiasi critica a qualcosa di inconsistente, invisibile, sterile ed inoffensivo. Dunque, in questo scenario dispotico, la musica che osa contraddire, che suscita interrogativi, che spalanca porte, che solleva dubbi e che si sporca le mani con la nostra contraddittoria realtà e ne mostra le crepe, non è solamente resistenza estetica, ma è un vero e proprio atto politico. Un esplicito e potente invito a riprendersi la possibilità di immaginare altri mondi, altre scelte e altre verità; verità che non sono più a somma nulla, che non vengono sempre stabilite altrove, che non sono più vendute come merci, ma che vengono costruite collettivamente, nella tensione, nel confronto e nel dissenso. Questa, in fondo, è la vera e preziosa lezione di Pier Paolo Pasolini: non smettere mai di riconoscere il fascismo nei luoghi, nei comportamenti, nelle opinioni, nelle azioni, nelle rappresentazioni più insospettabili, anche, e soprattutto, quando esso si presenta con il volto rassicurante della modernità democratica, mediatica, tecnologica e digitale.
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