Caro ragazzo
graffi sulle vetrine e luci blu
che corrono dietro ai cani randagi
ai sogni smagnetizzati
a tutte queste meteore ubriache
che attraversano le nostre strade
scomposte
le tastiere dei computer
le notti impolverate
rincorrendo albe senza serratura
e lune di plastica che svendono
abbonamenti scaduti
eppure, ci vogliamo bene
ci vogliamo male
a modo nostro
a modo nostro
a modo nostro
con tanto rumore
E’ una voce che viene dalla strada, dal fondo delle notti impolverate, dalle tastiere consumate di computer lasciati accesi, dai cani randagi che si rincorrono senza un apparente e valido motivo. Voce di una generazione senza serrature, voce di sogni smagnetizzati e di albe che non portano da nessuna parte, ma che continuano, ostinatamente, a spuntare.
Come una promessa.
Oppure come una beffa.
Il rumore non è solo un elemento acustico, il rumore è una condizione emotiva, un sottofondo che accompagna i giorni e le relazioni, una colonna sonora di distorsioni, di ruggiti urbani, di vite in apnea. Parole crude, chitarre taglienti, sezioni ritmiche che somigliano a corse a perdifiato nel cuore della notte.
Sotto il segno di una città che non dorme più, che cerca varchi, fessure, crepe e passaggi segreti, che non offre redenzione, che non si rifugia nel semplice sentimentalismo, ma che sceglie, visceralmente, il disincanto, come una dichiarazione d’amore storta, sbilenca e sincera; sincera, proprio perché imperfetta.
Il rumore dei pensieri, il rumore delle parole taciute, il rumore dei sogni accantonati, il rumore degli errori ripetuti.
Il rumore che diventa segno di appartenenza, un modo, tutto nostro, per volerci bene.
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