“La Terra è la culla dell’umanità, ma non si può vivere per sempre in una culla” scriveva Konstantin Ėduardovič Ciolkovskij, il padre del pensiero astronautico moderno. Eppure, ascoltando “Tall Tales”, sembra che Thom Yorke e Mark Pritchard abbiano deciso di abbandonare quella culla ormai logora, malconcia e irrimediabilmente compromessa, librandosi oltre l’atmosfera densa di disincanto e ostilità che avvolge il nostro tempo. Questo non è un semplice disco, è, in realtà, una finestra su un’altra possibilità percettiva, su un luogo in cui la gravità morale delle nostre scelte contraddittorie e il peso delle opprimenti costruzioni sociali evaporano come pulviscolo siderale. I due artisti, infatti, sembrano davvero guardare il nostro pianeta dalla distanza di un’orbita remota, da quel punto blu pallido di cui parlava Carl Sagan, dissolvendo le caotiche cacofonie quotidiane in un silenzio cosmico in cui il rumore del mondo è meno di un eco, meno di un respiro. Lassù, il chiasso delle nostre certezze si dissolve e resta solamente l’essenza informe del possibile.
I synth di “Tall Tales” non si limitano a produrre nuovi suoni, ma scavano dentro di noi, penetrano i tessuti sottili delle nostre coscienze, si insinuano nelle fenditure di quelle convinzioni che credevamo inviolabili e, con una dolcezza disarmante, le fanno vacillare. È come se l’album fosse un antidoto sonoro all’ipnosi collettiva, un balsamo elettronico che scioglie l’apnea di infide sicurezze in cui siamo stati immersi, forse non per desiderio autentico, ma perché ci avevano detto che era il modo giusto per meritare la ricompensa promessa ai più devoti, ai più rigidi, ai più fedeli al grande disegno. Ma, come rivelano le stratificazioni osmotiche di questo album, quel disegno non è mai esistito. È solo un simulacro vuoto, un ologramma proiettato dagli uomini più forti, più ricchi, più potenti e più abili a manipolare i fondali della realtà. “Tall Tales” diventa, di conseguenza, un invito implicito, quasi un sussurro cosmico, a riprendere il controllo, a superare le loro fredde rassicurazioni, a rifiutare le geometrie perfette delle loro menzogne e abbracciare, finalmente, l’imperfetta sensualità dell’incerto e dell’ignoto.
Nelle elettroniche sbilenche, nelle ritmiche androidi che ondeggiano come navi spaziali nell’universo profondo e nelle ninne-nanne sintetiche, c’è un richiamo a un’altra umanità possibile. Una umanità che non ha più bisogno di piani perfetti, ma che trova la propria salvezza nelle sensuali asimmetrie del caos creativo. “Tutto ciò che è diritto mente“, ammoniva Filippo Tommaso Marinetti nel “Manifesto del Futurismo”, e Thom Yorke e Mark Pritchard sembrano averlo assimilato nei loro brani, nelle deviazioni, nelle iperboli improvvise, nei suoni sghembi, nei loop ipnotici che frantumano e ricostruiscono il tempo, laddove è celata la chiave preziosa di un’esistenza meno docile e più autentica.
“Tall Tales”, quindi, non è un disco che va solo ascoltato, ma è un paesaggio musicale in cui perdersi, un sogno lucido, una realtà allucinata, una deriva cosmica in cui, finalmente, il rumore del mondo tace e restiamo da soli, con la voce più sincera che avevamo dimenticato di possedere. Quella voce che ci dice che non c’è nessun piano. E che, forse, è proprio questo, il primo passo per ritornare a vivere.
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