Le sonorità elettroniche dei Planet Opal non si limitano a costruire semplici ambienti sonori, ma combattono, con forza sottile e visionaria, quelli che sono i nostri veri nemici interiori: ansie fittizie, paure indotte, quell’incessante brusio mentale di preoccupazioni che ci vengono instillate, giorno dopo giorno, per renderci più insicuri, più diffidenti, più chiusi al mondo e a noi stessi. E, quindi, più manipolabili. La loro elettronica è un gesto collettivo, individuale e spirituale assieme: il rifiuto di una contemporaneità asettica, levigata, che pretende di bandire ogni fragilità, ogni ombra e ogni deviazione dal mito artificiale di una perfezione eterna e incorrotta.
Viviamo immersi in un presente infinito, in cui si finge di avere cancellato la malattia, la vecchiaia e persino la morte, barattandole con una patina digitale di eterna giovinezza e successo. Un’estetica che non ammette incrinature, una narrazione per immagini e per slogan che si alimenta del nostro stesso disagio, rendendolo mercato. Eppure è proprio nelle crepe, nelle fratture, nelle ombre che noi abitiamo davvero. Accettare le proprie ferite, riconoscerle e viverle senza alcuna vergogna, diventa, allora, un percorso necessario. E la musica, anche e soprattutto quella elettronica, può essere compagna fedele di questo viaggio di scoperta.
I Planet Opal lo dimostrano creando paesaggi sonori che si fanno rifugio e specchio, capaci di accogliere e di riflettere la nostra complessità interiore. La loro elettronica non è mai solamente ornamento o intrattenimento, ma è un territorio da esplorare, un altrove che invita a riflettere, ad immaginare, a riconciliarsi con il proprio lato più fragile e più irregolare. In questo, si avvicinano alla lezione di Brian Eno, che già con “Ambient 1: Music for Airports” insegnava a concepire la musica elettronica come uno spazio mentale, come una dimensione fluida dove il suono non serve, banalmente, a distrarre, ma a predisporre l’ascoltatore ad una diversa qualità del pensiero e delle idee, a una percezione più profonda di sé stesso e del mondo circostante.
Come Eno, ma anche come Tim Hecker o Alva Noto, i Planet Opal si muovono lungo confini sottili tra ambient, glitch, no-wave elettronica e psichedelia digitale, spezzando la linearità dei linguaggi consueti e rifiutando qualsiasi schema prefabbricato. Ogni loro traccia è un invito a scardinare quei vincoli invisibili che ci impediscono di evolvere, di smascherare le costruzioni sociali e politiche che ci obbligano ad essere altro da ciò che siamo, per abbracciare, invece, quella tensione continua tra la luce e il buio che abita ogni essere umano. Il loro obiettivo, dunque, non è solo musicale, ma è esistenziale: abbattere i simulacri, dissolvere le maschere, rompere il flusso ipnotico di modelli preconfezionati per tornare a sentire davvero, a pensare oltre i limiti imposti, a vivere aldilà di ciò che ci viene, continuamente, suggerito come giusto e come opportuno. È un progetto radicale, poetico e necessario, in un’epoca che ha fatto della superficialità e del consumo supersonico l’unica grammatica esistenziale possibile.
I Planet Opal, in questo senso, sono tra i pochi a riconoscere che la fragilità è bellezza, che le ferite sono storie da raccontare e che il rumore, se ascoltato con attenzione, può svelare verità dimenticate.
Comments are closed.