C’era, allora, un’atmosfera di possibilità. Il vento, nella metà degli anni Novanta, sembrava davvero cambiare. Il governo conservatore, dopo lunghi anni di thatcherismo spietato, cedeva il passo a Tony Blair e al New Labour, mentre le radio e le copertine dei magazine britannici celebravano una rinnovata fiducia nel futuro. La musica e la politica, per un breve istante, parvero persino parlare la stessa lingua. Era il tempo della “Cool Britannia”, una nuova età dell’oro in cui le chitarre erano tornate ad occupare i grandi spazi, gli stadi e le piazze. E mentre ancora l’analogico aveva il controllo dei suoni, degli studi di registrazione e delle anime, tutti — da Downing Street ai pub di periferia — sembravano convinti che quella festa non sarebbe mai finita.
Mai.
In questo clima, nel 1994, gli Oasis debuttarono con “Definitely Maybe”, un album che aveva il pregio di essere più diretto, più radiofonico e più immediato rispetto al visionario “Second Coming” degli Stone Roses, uscito anch’esso nello stesso anno, ma ancora troppo intriso di struggente indie-rock e di echi remoti di acid-house. Gli Oasis, invece, volevano riportare al centro il rock ‘n’ roll da stadio, quello più viscerale, ubriaco, chiassoso ed arrogante, lontano dai club, dall’elettronica e dalla cultura rave che avevano segnato l’inizio del decennio. Erano inni per la working-class britannica, inni da urlare in coro, pogando e ballando tra birre e lacrime. La promessa, in fondo, era scritta nel ritornello di “Live Forever”: saremmo vissuti per sempre.
Per sempre.
E oggi, nel 2024, trent’anni dopo, eccoli tornare. Non solo gli Oasis, che continuano a reincarnarsi nelle carriere soliste dei fratelli Gallagher, ma tutto il brit-pop di quegli anni sta riaffiorando, tra ristampe di vinili in edizioni speciali e costosissime, eventi celebrativi e concerti, con biglietti a prezzi inaccessibili, per quella stessa generazione che, un tempo, li cantava con le tasche vuote e l’ingenua voglia di cambiare il mondo. Ma questo revival, però, ha anche il sapore amaro della nostalgia messa in vendita. In un’epoca digitale che abolisce l’invecchiamento, le imperfezioni e il decadimento, quegli anni diventano, ovviamente, una merce preziosa da confezionare, da vendere e da consumare velocemente, come un gadget vintage o una vecchia fotografia filtrata e ripulita. La “Cool Britannia” oggi è solo un brand, un altro baraccone mediatico, l’ennesimo racconto edulcorato di una stagione che fu molto più complessa, rabbiosa, contraddittoria di quanto certi revival vogliano, oggi, farci credere.
C’è un retrogusto retorico, stancante ed imbarazzante, in questa operazione di resurrezione collettiva, il subdolo tentativo di dimenticare che anche allora la festa aveva le sue ombre, le sue ipocrisie, le sue esclusioni, le sue evidenti e colpevoli crepe. Ma oggi si vende il rimpianto di un tempo in cui si voleva vivere per sempre, dimenticando che, alla fine, nessuno ci è mai riuscito davvero. Eppure, la macchina gira, gli ingranaggi si muovono, i motori continuano a consumare carburante e, forse, è proprio questo il segreto del rammarico: vendere il passato come se esso fosse ancora possibile.
“You and I, we’re gonna live forever”. Perché, allora, fermarsi?
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