Redenzione, isolamento, sperimentazione. Affondare nella verità dolente, senza mai abbassare lo sguardo, senza fingere, senza nascondere nulla. Questo è ciò che accade ascoltando il nuovo album dei Solaris, un’opera che non si limita a riprendere le coordinate originarie del noise-rock più aggressivo, ma le disintegra e ne riassembla i frammenti in qualcosa di febbrile, di massiccio, di possente, di profondamente viscerale.
Il loro approccio è travolgente, come un’onda nera che sbriciola le dighe di sicurezza che ognuno di noi si costruisce per sopravvivere. Le liriche sembrano vomitate direttamente dal cuore di una metropoli malata, un urlo strozzato che racconta, senza retorica, l’assurdità, la follia e la crudele ignoranza che inquinano i tempi moderni. Un delirio lucido, perfettamente consapevole della propria condanna.
I matti, oggi, siamo noi. Noi che camminiamo, come spettri, in città invivibili, sotto cieli di metallo e schermi sempre accesi. Noi che sopravviviamo, invisibili, incatenati a catene di montaggio virtuali, etichettati, definiti, ridotti a statistiche e a profili. Nemici digitali ci spiano, ci osservano, ci ascoltano, ci schedano, ci profilano. Non li vediamo, ma li sentiamo respirare dietro ogni schermata, registrare ogni nostro battito, trattandoci come anomalie da estirpare dal grande organismo produttivo. Tutto questo prende la forma di un rock spigoloso, nervoso, abrasivo ed ossessivo. Un suono che non consola, ma che traduce, in materia sonora, la frustrazione di chi vive imprigionato in un incubo iperrealista, costretto a ripetere cicli infiniti di righe di codice, di abitudini tossiche, di droghe sintetiche, di menzogne istituzionali, di derive alcooliche che non curano nulla, ma che sono solamente rabbia che esplode, senza nessun vero bersaglio. Un suono che scava nel disagio urbano e spirituale, affacciandosi sull’abisso, senza paura di cadere.
C’è molto del grunge più rumoroso e viscerale dei primi anni Novanta in questo disco. L’urgenza senza compromessi dei Tad, la furia cieca dei Mudhoney, il nichilismo disturbante degli Alice in Chains più oscuri. Ma i Solaris vanno oltre, prendono quella lezione sonora, la destrutturano e la portano nell’era infame dell’algoritmo, dove il nemico non ha più volto, né nome, né corpo, ma è una costante presenza opaca ed ubiqua. È un album che canta di invasioni continue: invasioni di terra, di cielo, di mare e di spirito. Una guerra senza fine che si combatte con impulsi, dati, droni invisibili e politiche subdole che divorano, pezzo dopo pezzo, la nostra umanità. E forse l’unica salvezza è proprio questa rabbia grezza, questo rumore che lacera, che riempie il silenzio tossico di questa società di sorveglianza, finzione e controllo.
Come, infatti, scriveva George Orwell nel suo “1984”, se vuoi un’immagine del futuro, immagina uno stivale che calpesta un volto umano — per sempre. I Solaris non si limitano a mostrarci quello stivale, ma gli sputano contro, con amplificatori saturi, con distorsioni impietose e con parole che non cercano scuse. Non c’è redenzione, forse. Ma c’è ancora rumore. E in questo rumore, una forma di verità.
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