C’è un luogo in Italia che non somiglia a nessun altro posto di questo Paese. Una città che sembra essersi ritagliata un’isola dentro di sé, nonché una geografia sensoriale ed emotiva a parte, più europea che italiana, più legata a Marsiglia, Beirut, Barcellona, Buenos Aires e ai ghetti dimenticati d’America, che a Milano, Roma o Torino.
Napoli è l’ultima frontiera dell’umanità, un luogo che conserva il suo naturale rapporto con tutti i Sud del mondo. Napoli, infatti, guarda a Gaza non come fosse una semplice notizia o un effimero dibattito televisivo, ma lo fa come se si trattasse di un quartiere che potrebbe essere dietro l’angolo, parte del suo stesso corpo e del suo tessuto urbano. Napoli parla alle banlieue parigine, Napoli dialoga con le strade di Harlem e di Compton, Napoli sussurra ai villaggi senegalesi e alle periferie dimenticate delle nostre province. Questa città è in grado di avvertire il dolore ed il riscatto degli ultimi, come se fosse una faccenda personale, come se si trattasse di qualcosa che pulsa nei suoi vicoli, nelle sue piazze, nei suoi mercati o sulle gradinate dei Quartieri Spagnoli.
Questa condizione di meticciato emotivo, spirituale e culturale, Napoli l’ha raccontata e continua a raccontarla anche attraverso la sua musica. E non è un caso che i Massive Attack, profeti del trip-hop globale, abbiano sempre avuto un rapporto speciale con la città. Robert Del Naja, napoletano di sangue e di anima, ha sempre riconosciuto, nella sua terra madre, una delle pochissime metropoli europee capaci di conservare un’anima popolare ed internazionale insieme, un luogo dove la politica non è solamente un hashtag banale, ma è la vita quotidiana.
Ed intanto dalle dimensioni elettroniche più radicali, cangianti, dinamiche, vibranti e sperimentali, emergono, continuamente, nuove testimonianze e nuove figure, ad iniziare da Nziria, capace di fondere il neomelodico con la techno, le voci di strada con le pulsazioni industriali, in un corto-circuito sensoriale e percettivo che raffigura, perfettamente, la Napoli di oggi, un posto in cui la tradizione non è mai nostalgia, ma un continuo campo di battaglia sociale, espressivo e linguistico, mentre la musica elettronica diventa il rituale urbano, il lamento ancestrale, il rave spirituale, ed il Vesuvio si trasforma nella naturale cassa di risonanza e la lingua napoletana assurge al ruolo di linguaggio universale.
Ed è quello che avviene anche con la nuova ondata dei Thru Collected, il collettivo che, formatosi durante la pandemia, fonde musica, visual-art e scrittura e che è diventato, da subito, una delle cellule più vive, più osmotiche e più innovative della nuova Napoli. Nei loro pezzi, l’introspezione elettronica convive, ancora una volta, con la tradizione popolare, con la melodia e con testi che narrano di quartieri invisibili, di sogni interrotti, di amori tossici, di speranze disilluse e di notti che sembrano essere davvero infinite. Una generazione che mescola tutto e lo fa senza alcuna paura e senza alcun timore reverenziale: hyper-pop, rap alieno, divagazioni digitali e malinconie urbane.
Nel frattempo, i Nu Genea, alfieri di quella fusion napoletana che si nutre di funk, afrobeat, disco mediterranea e nostalgia cosmopolita anni Settanta, con le loro canzoni, danno vita a delle cartoline immaginarie spedite da una Napoli che potrebbe essere Lagos o Il Cairo o Kingston, una Napoli dove le chitarre wah-wah danzano assieme ai sintetizzatori vintage e alle percussioni africane. Una celebrazione solare, romantica e gentile dell’identità plurale di una città che, per vocazione, per storia e per destino, è sempre stata un porto aperto, un non-confine mutevole, un rifugio per chi che non ha patria, il luogo perfetto per coloro che – come Diego Armando Maradona – riescono ad incarnare il sogno di riscatto degli ultimi. La sua storia, in fondo, è quella di un ragazzo nato nella polvere e diventato leggenda tra i vicoli della città, di una città dove il sacro ed il profano si confondono, dove quel Pibe de Oro non è più un semplice calciatore, ma un santo laico, il volto ribelle di colui che ha osato sfidare i poteri del Nord ricco, potente e vincente, restituendo ai Napoletani la dignità della vittoria. Ed oggi, con il quarto scudetto, che Napoli si è cucita addosso, senza attendere altri trent’anni, questa storia si ripete, facendo sì che ciò che altri professano come impossibile, qui, invece, possa diventare abitudine.
Napoli è questo, una città dove la musica è ancora corpo e voce, rito e denuncia, cura e veleno, una città dove la tradizione non soffoca il futuro, ma lo alimenta costantemente, una città dove i Sud del mondo non sono un’eccezione, ma una regola. Perché Napoli è, da sempre, il sud di ogni nord, la voce di chi non si arrende.
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