Quali sono, oggi, i veri confini? Quelli geografici, ormai, esistono solamente per i disperati, per chi tenta di sfuggire a guerre, persecuzioni, storie di miseria, di precarietà e di povertà che non hanno mai smesso di attraversare il Mediterraneo e oltre. I confini non valgono, ovviamente, per chi detiene il potere, per le multinazionali che saccheggiano il pianeta, né per gli eserciti che li violano sistematicamente, cancellando popoli e culture, come accade a Gaza e come è accaduto infinite volte nella storia scritta dai vincitori. Esistono, però, confini più subdoli, più difficili da abbattere e sono quelli della mente, delle ideologie precotte, delle religioni utilizzate come catene, del profitto eretto a unica, vera fede universale. Quei confini che separano l’umano dall’umano, che dividono, nel nome di una patria, di un Dio e di una famiglia, e che per qualcuno sono la salvezza, per molti altri la condanna.
A scavalcare questi muri invisibili — ma potentissimi — è l’arte. E, più di ogni altra cosa, è la musica. Perché il suono resta materia primordiale, un linguaggio senza padroni, un linguaggio fatto di vibrazioni che toccano viscere, cuori e pensieri. La musica è il vero idioma universale, quello che permette di guardare l’altro senza filtri, senza paura, senza diffidenza. È viaggio nel viaggio: contaminazione, metamorfosi, creazione di nuovi paesaggi sonori, di nuovi immaginari, di nuove visioni.
È questo che avviene a Seattle, patria del grunge e dei sogni bruciati, ma anche sede della storica emittente KEXP, luogo che ha fatto dell’ascolto profondo una missione esistenziale. Ed è qui che Daniela Pes — artista sarda, voce che sembra arrivare da un tempo antico e da un futuro ancora da scrivere — ha portato il suo rituale sonoro. Una performance che è molto più di un live, è un’esplorazione spirituale, una sfida alla forma canzone stessa, a quelle regole, quelle frontiere e quei confini che ci rendono peggiori.
Tra le onde elettroniche di “Carme”, le stratificazioni di “Laira”, le sospensioni di “Illa Sera” e la delicatezza ipnotica di “A Te Sola”, Daniela Pes ha tessuto, a Seattle, un tappeto di suoni in cui la Sardegna arcaica e il mondo digitale contemporaneo si fondono. Come se i canti a tenore si fossero reincarnati nei riverberi dei sintetizzatori modulari, come se le leggende nuragiche avessero trovato un nuovo corpo tra delay e loop, in un idioma che non è né sardo, né italiano, né inglese, né altro, ma puro respiro emotivo. C’è qualcosa di profondamente deleddiano nel suo approccio, infatti, come Grazia Deledda sapeva raccontare un’isola aspramente chiusa e immensamente aperta al tempo stesso, dove il mito conviveva con la miseria, dove il destino si faceva canto e tragedia, così Daniela Pes trasforma la sua Sardegna in uno spazio sonoro fluido, in cui il confine tra radice e avanguardia si dissolve.
In quel piccolo studio di Seattle, in un luogo lontano che, certamente, non può conoscere le ballate sarde, ma ne riesce ad avvertire la potenza, la vivacità e il richiamo ancestrale, Daniela Pes ha fatto ciò che la musica migliore può fare: ricordarci che ogni confine è una costruzione artificiale e che, solo attraversandolo, possiamo davvero ritrovare noi stessi. Perché il confine vero è nella nostra testa. Ed abbatterlo è un atto necessario, oggi più che mai. E se la politica, l’economia e la religione continuano a costruire muri, solamente l’arte li può trasformare in ponti di suono, in sentieri invisibili che collegano le isole più lontane alle metropoli, i sogni ai ricordi, i popoli al mare che tutti ci accomuna.
Daniela Pes, in questo, è l’architetta di un mondo nuovo.
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