Una linea fragile, ma appassionante, collega le poesie malinconiche e tormentate di inizio Novecento con alcune delle più intense espressioni del rock italiano contemporaneo. È una linea fatta di dettagli, di nostalgie indefinite, di dolori sussurrati, di amori smarriti, di pomeriggi che svaniscono nella memoria e sogni mai del tutto confessati. Se alcuni poeti crepuscolari, come Sergio Corazzini e Guido Gozzano, cantavano la nostra incapacità di essere eroi, nonché la amara resa dinanzi alla modernità e l’abbandono liberatorio di ogni magniloquenza, svariate band ne hanno raccolto ed amplificato quello stesso sguardo sospeso tra disincanto e desiderio.
In un’Italia musicale spesso incline alla retorica sanremese o all’inutile ed urlato nichilismo, vi sono gruppi ed artisti che hanno preferito esplorare la fragilità quotidiana, le sensazioni sfilacciate, i rumori di fondo dell’anima, le inquietanti assenze più che le rassicuranti presenze. Dai Massimo Volume, che hanno donato alla stessa parola una consistenza sonora intima e lacerata, ai Giardini di Mirò, capaci di trasformare malinconie suburbane e periferiche in paesaggi shoegaze, passando, infine, per i Verdena, che tra fuzz, distorsioni e divagazioni psichedeliche hanno dato voce a un’irrequietezza esistenziale sottile, personale ed universale. Sono proprio loro i nuovi poeti crepuscolari elettrici, i quali, come i poeti di un secolo fa, parlano di sentimenti oramai in disuso, di passioni che sbiadiscono e sfumano, di malinconie senza nome. E lo fanno con chitarre cariche di riverberi, con i bassi profondi, con le batterie ovattate, con synth colmi di nostalgia. Le loro canzoni non urlano, non vogliono cambiare il mondo, ma cercano, semplicemente, di raccontare, con poetica dimessa, disillusa e visionaria, il disagio di non riconoscersi più in questo assurdo e violento presente e di cercare, di conseguenza, rifugi nella memoria, nelle fantasie, nei sogni, in tutti quei luoghi che non esistono.
Così, come Corazzini scriveva “Non sono un poeta / sono un piccolo fanciullo che piange“, questi artisti, e anche noi stessi, ci aggiriamo tra le rovine di un immaginario post-moderno, cercando bagliori di senso nelle piccole cose, negli oggetti abbandonati, nei paesaggi sonori notturni e lunari, nelle storie minime che raccontano vite comuni. E, forse, è questo il vero rock italiano, un canto crepuscolare ed incalzante, che trasforma le ferite in suoni, i rimorsi in delay, i silenzi in distorsioni. E, allora, vale la pena rintracciare e seguire questi nuovi crepuscolari elettrici, nomi che hanno saputo trasformare il senso di vuoto in paesaggi sonori sorprendenti, le debolezze in un’eco distorta, la solitudine in un nuovo suono, narrando, nel frattempo, di un’umanità incerta, restia, ostile, diffidente, eppure testardamente attaccata a ciò che resta.
I Massimo Volume, infatti, con le loro narrazioni, in bilico tra poesia e quotidianità, con le storie di periferia e di sentimenti rimasti a metà, raccontati dalla voce roca e sommessa di Emidio Clementi, con canzoni come “Fausto” o “Lungo i Bordi“, hanno fornito delle vere e proprie fotografie di un’Italia cupa, emarginata e lontana, un paese in cui il rumore delle cose non dette pesa molto più di quello che avviene o che crediamo stia avvenendo. I Giardini di Mirò, invece, hanno catturato la malinconia e l’hanno fatta vibrare in lunghe trame oniriche, shoegaze e post-rock, canzoni senza tempo che hanno il profumo e il sapore della nebbia e delle case di provincia, di emozioni taciute e di cieli lattiginosi; album come “Rise and Fall of Academic Drifting” o “Punk… Not Diet!” sono viaggi nel viaggio, istantanee introspettive in cui ogni riverbero sembra restituire il suono di una memoria che sfuma. E tra le band più enigmatiche e più viscerali, impossibile non citare i Verdena, capaci di fondere psichedelia, noise-rock, inquietudine, romanticismo e poesia; le loro liriche spesso volutamente criptiche, tra non-sense e frammenti emotivi carichi di veemente tensione, raccontano il nostro disagio e l’inafferrabilità del reale, mentre le chitarre costruiscono muri sonori in cui potere, finalmente, perdersi.
A queste band possiamo aggiungere anche i Soviet Soviet, che hanno saputo declinare la malinconia esistenziale in chiave post-punk e darkwave, dando voce a solitudini moderne e disumanizzanti, attraverso i loro riff taglienti, le loro ritmiche ipnotiche e le voci che sembrano provenire da un altro tempo, un tempo alieno e morente. Invece, Il Teatro degli Orrori, con la voce febbrile e teatrale di Pierpaolo Capovilla e i loro testi intrisi di disagio, di poesia civile e di affondi esistenziali, dipingono un’Italia cruda, cattiva, rabbiosa e volubile, raccontando, contemporaneamente, i limiti e le ferite dell’anima; e infine gli Uzeda, band catanese che, da decenni, scolpisce un noise-rock spigoloso e viscerale, fatto di strutture sghembe ed irregolari, chitarre abrasive ed urgenza emotiva, restituendo quella che è una Sicilia di confine, lontana anni luce dalla massa, aspra e insieme lirica, nella quale il suono diventa materia viva e racconto di resistenza interiore.
Questi artisti riescono a tradurre in suono la sensazione di trovarsi sempre altrove, sempre oltre, sempre aldilà, sempre “in direzione ostinata e contraria”, componendo una vera e propria colonna sonora notturna per le periferie deserte, per i viaggiatori lunari e per i pensieri irrisolti. Sono tutti, a modo loro, figli di quella poesia oscura, di quella poesia crepuscolare, di quella poesia marginale, di quella poesia elettrica, di quella poesia sensibile, di quella poesia delle piccole cose che preferisce sussurrare piuttosto che gridare, cercando, ancora, un angolo di bellezza nelle crepe della follia quotidiana.
E allora non può che venirci in mente Guido Gozzano, il poeta che sapeva cogliere il fascino stanco delle cose modeste, solitarie e dimenticate, e che scriveva, con dolcissima e toccante malinconia: “Io mi vergogno, ecco, mi vergogno / d’essere un uomo e non un bambino / che nel suo mondo piccolo e felice / s’appaga delle cose più modeste.” Versi che oggi potremmo ritrovare in certi brani di questi progetti musicali, mentre, tra le righe e le note, tentiamo, ancora, di salvare ciò che resta e di far brillare l’irrilevante.
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