C’è un’arte antica quanto il potere stesso, ovvero l’arte di dire una cosa per nasconderne un’altra, di cambiare il nome alle cose, di distorcere la realtà fino a renderla innocua e trascurabile. La chiamavano propaganda, ma oggi ha mille volti, molto più tecnologici, molto più sofisticati, molto più virali. I governi — tutti, nessuno escluso, di destra e di sinistra, reazionari o progressisti, più o meno democratici — l’hanno sempre esercitata, nascondendo i propri fallimenti dietro parole rassicuranti, inventando nemici comuni per compattare le masse, trasformando sconfitte in trionfi e disastri in opportunità.
Niccolò Machiavelli, cinque secoli fa, lo scriveva senza girarci intorno: “È necessario a un principe saper bene usare la bestia e l’uomo”, e cioè, dunque, è necessario piegare le emozioni popolari per mantenere il comando. E non c’è epoca che non abbia visto questo meccanismo all’opera. Nel nostro presente, Noam Chomsky ha smontato, con metodo scientifico, le strategie della manipolazione mediatica, elencando le dieci regole per addomesticare le menti. “Il modo più efficace per tenere sotto controllo le persone è limitare rigidamente lo spettro delle opinioni accettabili, ma permettere un dibattito vivace all’interno di quello spettro.”
Un’illusione di pluralismo che anestetizza, distrae, inganna, svia.
In Italia, il copione è più attuale che mai. Mentre i giovani laureati emigrano in massa e gli stipendi restano inchiodati ai livelli degli anni ’90, il dibattito pubblico si nutre di bandiere agitate al vento: l’allarme sicurezza, il “prima gli italiani”, il mito di un’identità minacciata. Il governo di Giorgia Meloni è maestro nel distrarre la pubblica opinione, ma è assolutamente incapace nell’affrontare la sfida di nuove generazioni che sono, nettamente, più povere dei propri genitori; intanto, nel frattempo, ci inchiodano dinanzi agli schermi luminosi delle TV e degli smartphone, ragionando di influencer, di Sanremo, di pallone e di altre sciocchezze che non hanno alcuna utilità pratica. Marco Pannella, voce scomoda e instancabile della nostra storia recente, lo ripeteva fino all’ossessione: “Il vero potere non teme chi lo combatte, teme chi lo ignora. Per questo lo devi far parlare d’altro.”
In questo scenario la musica ha sempre avuto un ruolo vitale: raccontare quello che il potere nasconde, dare voce a coloro che l’hanno persa.
Dai testi al vetriolo dei CCCP che narravano di un’Italia schizofrenica, stretta tra devozione ed autoritarismo, tra folklore paranoico e repressione, per finire ai resti, descritti dagli Offlaga Disco Pax, di quelli che sono, ormai, un’ideologia disfatta e un Paese trasformato in provincia esistenziale. E prima di loro c’era Rino Gaetano, che sapeva ridicolizzare il potere con la sua leggerezza tragica e con quelle canzoni che, in fondo, erano la cronaca feroce dell’Italia democristiana e corrotta dell’epoca, di un’Italia che non è mai cambiata davvero, come sanno altrettanto bene gli Zen Circus, cantori della disillusione, dei figli senza casa e dei padri senza lavoro, di una nazione che parla ancora di bandiere, ma che non si rende conto di aver abdicato al proprio futuro.
Solamente la musica, dunque, riesce a svelare le storture celate dietro i vari proclami social, restituendo umanità alle cifre fredde, ricordando che, dietro ogni statistica, c’è una storia di precarietà, di esclusione, di rabbia silenziosa. Perché è nelle canzoni che puoi ancora sentire la voce di quelli che sono stati abbandonati a sé stessi, di quelli che si sono stancati di vedere i nuovi e i vecchi media manipolare il proprio presente, mentre, nel frattempo, il futuro evapora. È nelle distorsioni elettriche e nei synth incalzanti che troveremo il vero bollettino di guerra delle nostre vite quotidiane.
Oggi serve più che mai una colonna sonora di resistenza, una nuova resistenza, una resistenza capace di andare oltre la facile retorica, oltre il Novecento, oltre le frasi fatte, oltre i luoghi comuni e scorticare, con forza, il velo di parole costruito, ad arte, dal potere, dicendo, finalmente, come stanno davvero le cose, mentre, loro, padroni e governanti, ci continuano ad insegnare a far finta di nulla.
Chi ha paura della libertà? Forse chi ha troppo da perdere e troppo da nascondere. Per questo serve questa colonna sonora alternativa, questa colonna sonora che smascheri le narrazioni di facciata, che restituisca complessità a un mondo troppo appiattito sulla semplificazione tossica del nemico facile e del capro espiatorio di turno. Perché se il potere sa ancora usare la bestia di Machiavelli, chi ascolta può scegliere di non farsi più addomesticare.
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