C’è qualcosa di antico e di selvaggio nel corpo femminile. Qualcosa che, nei secoli, è stato conteso, violato, censurato, adorato e deformato, ad immagine e a somiglianza di chi aveva il potere di raccontarlo. La mostra milanese in corso alla Galleria Fumagalli, curata da Maria Vittoria Baravelli e Annamaria Maggi, parte da questo nodo irrisolto, da questo campo di battaglia quotidiano. Le opere raccolte non si limitano ad evocare corpi, ma raccontano storie, rivendicazioni, metamorfosi, tra dolore e desiderio, tra ferita e rinascita.
Per secoli, gli uomini hanno disegnato una società su misura esclusiva per sé stessi, costruendo un ordine che imponeva alle donne di essere figlie, spose, sorelle, amanti, madri o muse, ma mai padrone del proprio destino. Un’etica, una religione, un’economia, un lavoro, una scuola, un’arte, una musica, una narrazione — tutte declinate al maschile e, spesso, infestate da una violenza subdola e sottile o brutale e manifesta.
Emily Dickinson, dalla sua Amherst, scriveva:
“They shut me up in Prose —
As when a little Girl
They put me in the Closet —
Because they liked me ‘still’.”
Rinchiusa nel linguaggio, nella prosa, nelle aspettative, nel silenzio imposto di uno sgabuzzino, affinché se ne stesse “tranquilla”, come troppe altre prima e dopo di lei.
Eppure, oggi, il tempo di quella clausura sembra destinato, finalmente, ad infrangersi. Nel 2025, malgrado il sistema continui a difendere sé stesso con ostinazione e ferocia, si avverte una spinta sotterranea e potente, una febbre di rivendicazione che passa anche attraverso il corpo: dal modo di mostrarlo, di viverlo e di raccontarlo. È un processo fragile e straordinario, un processo che questa mostra tenta di accogliere e, a sua volta, rilanciare, lasciandosi trasportare dalle parole di Oriana Fallaci ed immaginando, di conseguenza, un mondo in cui il corpo non sia più un campo di conquista, ma uno spazio di libertà, non più un oggetto, ma una voce.
Questa stessa voce vibra nelle corde sgraziate, distorte, blueseggianti e sublimi di Janis Joplin, nella rabbia viscerale, rumorosa ed elegante di Kim Gordon, nell’eterea sensualità riflessiva ed aliena di Kazu Makino. Donne ed artiste uniche, che hanno preso la musica — altro territorio, storicamente, colonizzato da logiche patriarcali — e l’hanno riscritta a modo loro. Janis gridava, rideva, e piangeva sul palco, mescolando blues-rock e brandelli d’anima. Kim trasformava, con i Sonic Youth, la distorsione noise-rock in un linguaggio politico, sussurrando ed urlando i propri riti di disobbedienza. Kazu, con i Blonde Redhead, ha disegnato paesaggi sonori fragili e, allo stesso tempo, feroci, esprimendo una femminilità che non vuole chiedere alcun permesso. Mai più.
Grazia Deledda — unica scrittrice italiana premio Nobel — scrisse una volta: “La donna è come il mare: apparentemente tranquilla, ma capace di inghiottire e sconvolgere.”
E questo mare oggi si sta sollevando. La ribellione passa anche dal controllo del proprio corpo, dal diritto di raccontarsi senza più filtri, dal rifiuto dei ruoli imposti e dalla denuncia di una violenza che non è emergenza o evento sporadico e casuale, ma è essa stessa parte del sistema. I femminicidi, essendo crimini di possesso e di controllo, sono la manifestazione più brutale di questo tentativo di restaurazione. Non è solamente odio o crudeltà, ma è la nostalgia di un potere antico. E Margaret Atwood lo ha scritto con precisione feroce: “Men are afraid that women will laugh at them. Women are afraid that men will kill them“. Gli uomini hanno paura che le donne ridano di loro. Le donne hanno paura che gli uomini le uccidano.
Questa mostra, dunque, e il suo dialogo sotterraneo con le voci poetiche e musicali delle donne che hanno saputo e che hanno osato rompere il silenzio, ci offre una visione alternativa, un altrove possibile. Un mondo più affascinante perché più imprevedibile, più potente perché più inclusivo, più vivo perché attraversato da contraddizioni, immaginazione, sensualità e disobbedienza. È un invito, quello delle artiste che espongono le loro opere – da Marina Abramović a Sang A Han, da Annette Messager a Shirin Neshat e Gina Pane – ad immaginare città, scuole, relazioni, famiglie, palchi e governi non più come piccoli e grandi fortini maschili da difendere, ma come spazi comuni, infiniti, contaminabili. Perché un corpo libero — come una voce libera, come una chitarra distorta che improvvisa una melodia nuova — non è una minaccia, è l’inizio di una rivoluzione che riguarda tutti noi.
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