Gli Swans non appartengono a niente e a nessuno. Sono creature erranti, prive di coordinate, distruttrici di ogni possibile definizione. La loro musica è un organismo mutante che si muove su traiettorie autonome, aliene a qualsiasi compromesso, rifuggendo strutture e narrazioni preordinate. Ogni loro disco è una frattura, un’apertura in un tessuto sonoro che non conosce tregua e che, con assoluta naturalezza, passa da atmosfere post-rock, crepuscolari ed apocalittiche, a viscerali sperimentazioni noise-rock, da sferzate metalliche, veementi e massicce, a rarefatte stanze minimali, oblique, scabre ed oscure, come tane di cemento abbandonate.
Dentro questo ultimo disco, “Birthing”, la realtà e la fantasia smettono di opporsi e si fondono in un tutt’uno, in un amalgama di sogno febbrile e di desolazione cosmica. È un album che appare sigillato, ermetico, chiuso, inaccessibile ad un primo ascolto e, proprio per questo, irresistibile. Custodisce trame sonore occulte, mondi psichedelici sussurrati più che mostrati, resti di ballad lisergiche e di orizzonti ambient che sembrano risuonare dall’altra parte di una cortina di fumo, come i racconti di Ballard sulle città sommerse, oppure come le visioni post-atomiche di Samuel R. Delany, mentre la musica è l’ultima voce capace di dare un senso alle rovine.
Il lavoro degli Swans si presenta, ancora una volta, come un rituale collettivo, un invito a superare le dissonanze dell’esistenza, il dolore sordo ed i traumi rimossi. È una pioggia sonora purificatrice, un battesimo nel caos. Le loro melodie sintetiche, i bassi pulsanti, le armonie sporche di nostalgia e di catarsi, non danno vita a semplici brani, ma a veri e propri rituali magici, incantesimi sonori lanciati contro il nichilismo dell’epoca moderna. Passaggi acustici, nostalgie remote, clangori elettrici: ogni suono diventa necessario, inevitabile, unico possibile rimedio al morboso incubo contemporaneo che ci droga e ci consuma, imprigionandoci in un mondo di cenere e di detriti.
Gli Swans attraversano il tempo e lo spazio come sciamani urbani. Le loro robuste radici noise, jazzistiche ed avanguardiste, non sono zavorra, ma ali. Dimostrano, pezzo dopo pezzo, come anche ciò che appare come un abisso sterile possa custodire tesori sperimentali, nuove passioni improvvise, intuizioni travolgenti, ritmiche ancestrali, frammenti di speranza sparsi in oceani di fango. Ed intanto le ultime città dell’uomo moderno bruciano su sé stesse e i palazzi della ragione crollano, ma Michael Gira e compagni ci mostrano che la vita può rinascere, puntualmente, dalle macerie, in un modo inatteso, imprevisto e mai lineare.
È la stessa lezione che profetizzava, in fondo, anche William S. Burroughs, cartografo delle società disintegrate e dei corpi contaminati: “l’unico reale viaggio è quello nel tempo, tra le rovine e i relitti, dove le storie dimenticate emergono dai rifiuti della civiltà”.
Ecco cosa fanno gli Swans: raccolgono quelle storie, quelle voci sepolte e le trasformano in suono nuovo, ovvero in una lunga, estenuante, meravigliosa preghiera sonora che non ha bisogno di alcun Dio.
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