C’è qualcosa di inevitabile, e perfino di giusto, nel ritorno dei Pulp. Dopo anni di silenzio, di vite spezzate, di rughe che si sono insinuate nei volti e persino nelle voci, “More” arriva come una lettera spedita troppo tardi, ma che, comunque, vorremmo leggere. In fondo si tratta di un atto di resistenza malinconica, del tentativo di riprendere il filo di una narrazione interrotta e di riscrivere il proprio nome in un tempo che non ha mai il bisogno di chiedere il permesso.
I Pulp sono stati il volto più ambiguo e più sensuale della Cool Britannia: androgini, perversi ed eleganti nel loro sbracato romanticismo urbano. Jarvis Cocker, con il suo cantato teatrale e dissacrante, ha raccontato il sesso, la noia e l’ebbrezza della working-class e lo ha fatto con l’ironia tragica di chi sa che tutto passa, ma che, nel passare, lascia addosso una cicatrice sottile, dolorosa, catartica e preziosa. “More” raccoglie proprio quel passato e lo fa suonare ancora, senza la pretesa di essere giovani, ma con la consapevolezza che anche i sogni logorati hanno diritto ad una seconda vita.
In questi brani c’è la nostalgia, certo, ma anche l’ammissione di quanto il presente sia più violento, più incerto, più sbilenco, più ingiusto di quanto avremmo potuto immaginare una ventina d’anni fa, quando le copertine patinate di Select o di Melody Maker promettevano una rivoluzione gentile a colpi di brit-pop e glamour working-class. Ed invece eccoci qui, in bilico tra una crisi permanente e una festa che non ha mai avuto davvero inizio. Il ritorno di tante band di quell’epoca — tra reunion e nuovi dischi — non è solamente un’operazione nostalgia, è il disperato tentativo di ritrovare la matrice di un’epoca in cui si poteva ancora credere in un futuro di sogni facili, di notti romantiche e di canzoni da cantare a squarciagola. Il brit-pop è stato, in fondo, l’ultimo vero sogno collettivo della cultura pop occidentale, un’illusione di benessere e di leggerezza che avrebbe dovuto renderci tutti più felici, tutti più belli, tutti più liberi, ma che, come ogni illusione troppo perfetta, si è sbriciolata nel disincanto, lasciandoci solamente l’eco remota di quelle melodie.
C’è, quindi, qualcosa di profondamente letterario in tutto questo, ovvero la sensazione che il tempo non sia una linea retta, ma un cerchio imperfetto, un cerchio che ci riporta sempre nei luoghi da cui credevamo di essere fuggiti. Come scriveva Proust, “il vero paradiso è quello che abbiamo perduto”. “More” è proprio questo, è un tentativo di risalire il tempo, non per cancellare le rughe, ma per rivendicare la propria presenza, la propria storia, la propria essenza. È un disco di sopravvissuti, di illusionisti stanchi che, ancora una volta, riescono a tirar fuori il coniglio dal cilindro, anche se ormai lo spettatore è distratto e scrolla il suo dannato telefono. Ed allora, forse, piuttosto che giudicare questi ritorni col cinismo del nostro disincantato presente, dovremmo permettere a questi agitatori romantici e a questi narratori di passioni urbane, di accompagnare, ancora ed ancora, le nostre giornate grigie, le nostre notti complicate, i nostri desideri rimasti senza voce. Perché nessuno è davvero indifferente a questi lampi di storia vissuta; nessuno è immune al fascino di una stagione che ritorna, anche se sotto spoglie diverse. E perché, alla fine, tutti noi abbiamo bisogno di ricordare quanto siamo stati belli, eroici, vivi — e credere, per il tempo di una canzone, di poterlo essere di nuovo.
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