sabato, Giugno 14, 2025
Il Parco Paranoico

Referendum 2025: un Paese ostaggio di archeologie sociali e sindacali

Il futuro di un Paese non può essere scritto da chi è, irrimediabilmente, ancorato a un passato che non esiste più. Non si tratta di incapacità — sarebbe troppo comodo liquidare così il discorso; il vero problema è che le grandi organizzazioni sindacali italiane, CGIL in testa, sono prigioniere di una visione assolutamente novecentesca della vita, del lavoro, della società e delle sue relazioni di potere. Per quanto esse tentino, disperatamente, di intercettare nuove energie, di parlare a quella fetta di mondo precario, intermittente e smaterializzato che popola i coworking, le partite IVA occasionali, il lavoro digitale e il sottobosco culturale, esse restano, drammaticamente, immobili, continuando, inutilmente, ad arroccarsi su contrapposizioni binarie, su antichi lessici di lotta operaia, su dialettiche rosso-nero, bianco-nero, compagni e compagne, che non servono più a nulla, senza rendersi conto che quella storia è finita da un pezzo.

E non è finita perché è stata vinta o sconfitta: è semplicemente evaporata, come tutto ciò che non si è saputo trasformare.

Lo racconta bene Brunori Sas in “Capita così”, quando canta di coloro che si affidano all’ennesima dieta, di coloro che si rivolgono, speranzosi, ad un cantante che sembra l’ennesimo profeta. Un Paese che si auto-alimenta, da troppo tempo, di compromessi e di nostalgie e che è assolutamente incapace di guardare avanti. In una società, in cui il lavoro ha cambiato natura, e con esso il potere che lo governa, continuare a ragionare in termini di classi novecentesche, di padroni e di operai, di catene di montaggio e di scioperi generali è patetico, sciocco e sterile. Oggi, il vero nemico non è il capitale, ma sono, soprattutto, le lobby trasversali che occupano e divorano ogni interstizio del potere. E, purtroppo, in queste lobby non troveremo solamente i grandi evasori fiscali, ma anche molti professori universitari, molti magistrati, molti professionisti di fama e successo, oltre che, ovviamente, parlamentari di professione e, sì, anche sindacalisti di mestiere.

Giovanni Truppi, in “Procreare”, scrive che “a volte penso che non esiste niente / e tutta la mia vita è un’invenzione / di fatti sentimenti e le persone”, una fotografia perfetta di quel panorama politico e sociale nel quale i sindacati restano appesi a strutture morte, incapaci di prendere atto della liquefazione del reale. È lì che si annida il privilegio. È lì che si produce la diseguaglianza strutturale. Ed è lì che un sindacato moderno dovrebbe andare a colpire. Ma, per farlo, servirebbe una competenza che manca del tutto: una preparazione scientifica, tecnologica, informatica, matematica, economica ed ingegneristica. Servirebbe capire i meccanismi finanziari, le dinamiche della fiscalità digitale, la struttura del nuovo capitalismo algoritmico, il funzionamento reale delle piattaforme, il mercato nero dei dati personali, i modelli di lavoro asincrono e liquido. Invece, il sindacalismo italiano resta confinato nei dipartimenti di filosofia morale e di scienze sociali d’accademia, sterile nei suoi convegni, autoreferenziale nei suoi congressi, compromesso nei suoi rapporti aziendali.

La lotta di classe non si fa più in fabbrica, ma si fa nella trasparenza fiscale, nella lotta alle rendite di posizione, nella distruzione dei privilegi medievali dei notabili di categoria. Eppure, nessuno scende in piazza per chiedere il carcere per chi evade milioni di euro, per chi elude le tasse attraverso studi di settore compiacenti, per chi fa cartello negli ordini professionali. Lucio Corsi, con la sua ironia lucida, in “Cosa faremo da grandi?”, ci parla di un Paese in cui nessuno sembra più avere il coraggio di immaginare davvero un futuro, mentre Vasco Brondi, in “Cara catastrofe”, canta di città che sembrano prigioni e di rivoluzioni mancate. Perché? Perché veniamo sempre fregati?

Perché il sistema è tutto interconnesso, perché lobby e sindacati non sono più avversari, ma sono parti della stessa filiera del potere, perché tutti mangiano allo stesso tavolo, spartendosi fette di un’Italia immobile, in cui i giovani emigrano ed i mediocri si accomodano. Dente, in “La vita fino a qui”, riassume questa condizione esistenziale e civile in una frase: “ma cosa c’è, cosa c’è che non va? cosa c’è di diverso da vent’anni fa?”. È il racconto di un paese bloccato nel proprio passato, incapace di riformarsi.

La soluzione è drastica e necessaria. Non referendum inutili, referendum che nascono già morti, non iniziative simboliche, non documenti di indirizzo o appelli al buonsenso. Bisogna disintegrare il sindacato esistente, azzerare la sua classe dirigente, sciogliere le alleanze trasversali e ricostruire, da zero, un nuovo modello di rappresentanza sociale che non sia più fondato su ideologie stanche, ma su pragmatismo, competenza, tecnologia, scienza, ingegneria, coraggio civile. Un sindacato che si occupi di mobilità sociale reale, di redistribuzione reale delle ricchezze, di lotta reale alle rendite e ai privilegi, di reali politiche fiscali e digitali, di reale equità generazionale e che rompa, per sempre, i rapporti promiscui con le aziende, con i politici e con le istituzioni; che faccia, finalmente, saltare i salotti buoni e le rendite protette.

Perché non c’è futuro in un Paese in cui le organizzazioni che dovrebbero rappresentare il lavoro, difendono, invece, sé stesse, i propri vantaggi e i propri rituali polverosi. Il futuro dell’Italia si gioca altrove. Lo canta anche la musica che ascoltiamo. E sarebbe ora di ascoltarla davvero.

E, per finire, lo scatto di Francesco Faraci, con il suo bianco e nero, con il volto assorto di quel giovane immerso in un contesto periferico degradato, con sullo sfondo baracche, macerie e detriti, incarna, visivamente, alla perfezione, le tensioni esistenti tra memoria, marginalità, rassegnazione, speranza e il desiderio di cambiamento che attraversa il nostro sciagurato presente, un cambiamento che nessun referendum, promosso da questi sindacati e da questi partiti, potrà mai far avverare.

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About The Author

Michele Sanseverino, poeta, scrittore ed ingegnere elettronico. Ha pubblicato la raccolta di favole del tempo andato "Ummagumma" e diverse raccolte di poesie, tra le quali le raccolte virtuali, condivise e liberamente accessibili "Per Dopo la Tempesta" e "Frammenti di Tempesta". Ideatore della webzine di approfondimento musicale "Paranoid Park" (www.paranoidpark.it) e collaboratore della webzine musicale "IndieForBunnies" (www.indieforbunnies.com).

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