C’è una bellezza che nasce e cresce ai margini, nelle pieghe stropicciate del mondo moderno, nelle periferie che non hanno coordinate precise, ma che si assomigliano tutte, dal Sud d’Italia alle distese polverose di qualche anonimo sobborgo mediorientale, fino ai quartieri slabbrati della vecchia Europa. Ed è una bellezza sgualcita, una bellezza stanca, una bellezza esausta, una bellezza che riesce a sopravvivere nonostante tutto — alle distese di cemento senza nome, ai palazzoni grigi e cattivi, ai cumuli di macerie, di detriti e di rifiuti abbandonati sotto il sole ardente o nell’abbraccio umido della sera.
Francesco Faraci riesce a raccontarla con i suoi scatti in bianco e nero, fotografie che sanno di rabbia e di poesia, di speranza e di malinconia, dove il degrado urbano si trasforma in una potente narrazione umana. Perché la vera oscenità non è la rovina in sé, ma l’indifferenza, la nostra indifferenza. Quei muri scrostati, quei volti segnati, quelle strade in rovina parlano, infatti, di una strafottenza collettiva, di una scelleratezza umana che ovunque, soprattutto in ogni Sud del mondo, si manifesta con maggiore follia e brutalità. È un’umanità che consuma il proprio ambiente, il proprio futuro, i propri simili e sé stessa, senza immaginare un domani condiviso.
Certe latitudini rendono tutto più evidente, più feroce, più crudele: qui, purtroppo, la criminalità non è solamente cronaca, ma è cultura diffusa; la mala politica non è un’eccezione, ma è consuetudine; lo scempio della natura è un paesaggio quotidiano. Eppure, persino in questo disastro estetico e morale, c’è sempre spazio per lampi improvvisi di grazia. “Le ragazze stanno bene”, il brano de Le Luci Della Centrale Elettrica, ci rammenta che “forse si tratta di fabbricare quello che verrà / con materiali fragili e preziosi, senza sapere come si fa”. E forse proprio questo è il punto: resistere, costruire e trovare la forma della poesia nel caos.
Gli Afterhours di “Non è per sempre”, d’altro canto, ci narrano, con efficacia, il declino urbano, il vuoto celato sotto le luci al neon di una metropoli arrivata, oramai, alla fine del suo racconto. Ma tra quelle rovine continuano a vivere storie d’amore impossibili e sogni di fuga che odorano di salsedine e di benzina bruciata. È l’Italia minore, quella che non fa notizia, ma che sopravvive. Un’Italia di strade di paese e di gatti randagi, di lampioni rotti e di notti senza stelle, un’Italia scritta nelle periferie metropolitane di “Kanzone su Londra” dei 24 Grana, tra speranzose partenze e i ritorni inevitabili, tra fermenti ed aspirazioni tradite.
Ed è proprio qui che nasce la vera canzone di protesta del nuovo millennio, una canzone che non è più proclama ideologico, ma che diviene il racconto intimo e spietato di un Paese che s’è fatto carne e cicatrici. Canzoni che sono fotografie sonore di queste periferie sgualcite e sciagurate, racconti in musica di un’umanità che non sa smettere di auto-distruggersi, ma che, ostinatamente, continua a cercare qualcosa di più. Un viaggio dentro la disfatta e il sublime, come quello che compiono i Canova, tra relazioni precarie, corse notturne e sentimenti in bilico, in una fotografia indie-rock del nostro isolamento emotivo urbano, mentre la paura e il furore giovanile diventano occasione preziosa per riconoscersi più fragili, più sinceri e più desiderosi di vero cambiamento.
Francesco Faraci fotografa questo mondo. Ogni suo bianco e nero è una canzone muta, un ritornello di periferia che parla di macerie, di corpi stanchi e di bambini che giocano tra le rovine. E, in sottofondo, si sente ancora il rumore di una radio che trasmette, da qualche garage lontano, “Considera”, interpretata da Colapesce, Dimartino e da un mare ridotto a cartolina sbiadita e consumata. Perché in fondo è questo il senso: la bellezza sta tutta lì, tra le crepe, nei cortili o nelle strade sgualcite ed è più viva di qualsiasi skyline patinato.
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