C’è un luogo, ad Amsterdam, chiamato Ziggo Dome, un luogo pensato per contenere la voce collettiva, quella che sale dai corpi in movimento, dalle mani alzate, dai cori improvvisati. È lì che i Simple Minds hanno registrato questo live, “Live in the City of Diamonds”, diciotto tracce che non sono soltanto canzoni, ma frammenti di una memoria collettiva, specchi di epoche, fotografie di un’umanità che aveva, ancora, paura del futuro, ma anche il coraggio di immaginarlo diverso, a differenza di quella attuale imprigionata in un presente falsamente eterno.
C’è stato un tempo, e non è poi così lontano, in cui attraversare il mondo da Est ad Ovest significava sfidare frontiere invisibili e muri reali. Si parlava, appunto, di cortina di ferro, di deterrenza atomica, di guerra fredda. Le ideologie erano spade affilate e taglienti, non inutili slogan di plastica, e dividevano il pianeta in blocchi contrapposti, in sogni ed incubi che oscillavano tra totalitarismi e democrazie imperfette. In quel tempo, senza internet, senza feed istantanei e senza la costante angoscia del trending-topic, i nomi capaci di segnare il destino di milioni di persone erano quelli di Mandela, di Arafat, di Gorbaciov, di Lech Walesa, di Ariel Sharon, di Giovanni Paolo II, di Ronald Reagan. Figure che, nei loro limiti umani, hanno incarnato una tensione collettiva, una speranza, una rottura rispetto al passato più torbido.
In quel mondo sospeso, i Simple Minds erano molto più di una band. Erano il punto di convergenza tra le piste da ballo e le arene rock, tra le ballad epiche e le scariche di funky nervoso, tra il bisogno di evasione e quello di riflessione. Le loro canzoni erano inni per una generazione in bilico, troppo giovane per la guerra reale, ma già stanca della pace apparente. Oggi, ascoltando questo live, è impossibile non sentirsi attraversati da un senso di vertigine. Musicalmente, la band è ancora in forma, le canzoni respirano e vibrano come allora. Il pubblico canta a squarciagola, come se quelle parole potessero ancora tenere insieme i pezzi di un mondo che si sta sgretolando ad ogni latitudine, ma la sensazione più forte è un’altra: questo disco è uno specchio in cui vediamo riflessi i passi avanti ed i troppi passi indietro compiuti in questi decenni.
Abbiamo conquistato dei diritti, superato dei tabù, abbattuto dei veri muri — almeno alcuni. Ma abbiamo anche perso qualcosa. Abbiamo smarrito la capacità di immaginare un futuro collettivo, di credere che la politica potesse essere uno strumento di liberazione e non solamente di gestione del potere e degli interessi esistenti. Oggi, le ideologie sono state svuotate e trasformate anch’esse in merci, le classi dirigenti sono incapaci di visione, preoccupate solamente di restare a galla, più che di navigare davvero. E così, nel vuoto lasciato dalla politica, si sono fatti spazio gli uomini forti e pericolosi: Trump, Putin, Erdogan, Xi Jinping, Kim Jong-un, Orbàn, Netanyahu. Tutti accomunati dalla stessa strategia antica ed infallibile: dividere per governare; alimentare le contrapposizioni culturali, etniche, religiose, così da saldare il proprio potere e spegnere ogni sogno di uguaglianza.
Ascoltare oggi brani come “Belfast Child”, “Don’t You (Forget About Me)”, “Love Song” o “She’s a River” è anche un atto morale, un rito di memoria e di resistenza umana. È ricordare che questo pianeta non ha mai conosciuto davvero la pace, la sicurezza, il benessere o l’amore universale. E che se il Novecento ci ha insegnato qualcosa, è che i fantasmi che pensavamo sepolti tornano sempre, e sempre con la stessa faccia di odio, di razzismo, di violenza, di intolleranza, di crudeltà e di negazione dei diritti civili. Il nuovo millennio, nato sotto il segno della globalizzazione e della promessa di una società interconnessa, più tecnologica e più giusta, sta, invece, riscoprendo le peggiori dinamiche del passato: muri, fili spinati, guerre religiose, persecuzioni etniche, repressioni di piazza. E ogni volta che accade, una canzone dei Simple Minds sembra ricordarcelo, con dolcezza e con ferocia assieme.
Forse è per questo che questa band ha ancora un senso, perché ci obbliga a ricordare il passato e a sperare nel futuro. E perché, come canta Jim Kerr, in “Alive and Kicking”, c’è sempre un momento in cui puoi scegliere se continuare a vivere o mollare: “Stay until your love is alive and kicking / Stay until your love is… until your love is…”. Perché se c’è una cosa che la musica insegna meglio di qualsiasi leader, è che nessun regime dura in eterno e nessuna notte è così lunga da impedire all’alba di arrivare. E forse tutto questo lo sapevamo già, in fondo al cuore, anche quando le arene erano piene e le band suonavano inni per una generazione che voleva soltanto sentirsi viva. I Simple Minds, in “Belfast Child”, lo cantavano sottovoce, quasi a voler avvertire tutti noi: “Someday soon they’re gonna pull the old town down…”.
E forse non abbiamo fatto abbastanza per impedirlo. Ma resta la musica, resta il ricordo, e resta la consapevolezza che ogni città, ogni anima, ogni memoria abbattuta può essere ricostruita. A patto di volerlo davvero.
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