Nel mondo sonoro dei Lifeguard, l’attitudine do-it-yourself non è soltanto una cifra stilistica, ma una dichiarazione di guerra. Batteria e chitarre prendono il sopravvento, come forze naturali fuori controllo, costruendo trame sbilenche, disorientanti ed oblique. Sembra, quasi, che ogni loro pezzo si divincoli da qualsiasi tentativo di inquadramento, abbattendosi, con le sue sferzate caustiche ed abrasive, su tutto ciò che, nella nostra quotidianità, consideriamo normale, corretto, ordinato, opportuno. La loro è una musica che graffia, che ferisce, che non chiede il permesso. È un caos che salva, perché distrugge le illusioni di sicurezza che ci siamo, arrogantemente, cuciti addosso.
In questo universo sonoro dove noise, indie-rock e un garage-punk elettrizzato convivono in una tensione perenne, i Lifeguard ci ricordano che il vero pericolo non è il disordine, ma l’ordine imposto. La loro urgenza rumorosa è la voce di chi, in un mondo anestetizzato ed ossessionato dalla misura di ogni rapporto umano, in termini di convenienza, ritorna a sentire il malessere — e invece di soffocarlo, lo lascia esplodere. In un tempo in cui ogni relazione viene soppesata, calcolata, valutata sulla base di ciò che può offrire in cambio, la fiducia è diventata una moneta preziosa ed in via di estinzione. Non ci fidiamo più di nessuno, nemmeno di noi stessi. E allora, in questa terra desolata, affettiva, sociale e politica, ci affidiamo a un nuovo dio diffuso ed invisibile: l’entità digitale che abita i nostri smartphone, le reti, le stanze opache in cui le multinazionali globalizzate decidono delle nostre esistenze senza mai dover rispondere di nulla. Un potere che ci esorta a prenderci cura solamente di noi stessi, ad inseguire il benessere, la bellezza effimera, il successo personale, il saldo in banca, mentre tutto il resto si sgretola.
Il disco dei Lifeguard, invece, porta con sé il seme di un possibile deragliamento. È il suono delle deviazioni collettive, delle anomalie sociali che non possono più essere nascoste sotto il tappeto. È il ritmo martellante di un malessere pronto ad esplodere ovunque, a qualsiasi latitudine. Le notizie di questi giorni non fanno che confermarlo: Los Angeles a ferro e fuoco, un presidente disposto ad oltrepassare ogni limite, preparandosi a schierare l’esercito contro i suoi stessi cittadini, pur di mantenere intatta una narrazione tossica, quella secondo cui il vero problema sarebbero i poveri, gli emarginati, gli invisibili — gli stessi che il sistema sfrutta per i lavori più sporchi, più pericolosi, più disumani, e poi butta via.
Ecco, allora, che il caos sonoro dei Lifeguard assume un senso più profondo e più politico. È una presa di posizione senza proclami didascalici, ma intrisa di quell’energia punk e rivoltosa che non può fare a meno di mostrare il lato più abominevole e più violento del potere. La band americana spinge sull’acceleratore delle sonorità garage-rock inquinate da ondate di basso dub, costruendo una colonna sonora viscerale per quello che è necessario disordine. È musica che rende giustizia a tutti quelli che hanno provato a rendere questo mondo più umano, con la lotta, con il sacrificio e con il sudore. Perché, a ben vedere, non esiste una geografia del riscatto, se non quella profondamente umana che attraversa le vite ed i corpi degli ultimi, ovunque essi si trovino. E se c’è ancora una salvezza possibile, passa proprio da questo caos rumoroso e urgente che i Lifeguard sanno evocare, ricordandoci che il disordine può essere il primo passo verso una nuova forma di libertà.
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