C’è stato un tempo in cui il cinema sembrava una forma di contro-storia, un altare profano eretto per smascherare i feticci, gli idoli ed i simulacri edificati dalle potenze vincitrici e per minare, dalle fondamenta, quelle narrazioni ufficiali che gli imperi amavano ed amano raccontare di sé stessi. In quel tempo, negli anni ’60 e ’70, sulle colline polverose di Almería, in Spagna, e nei deserti italiani mascherati da Arizona, nasceva un genere spurio ed irridente: il western all’italiana.
Laddove il western classico americano celebrava il coraggio dell’uomo bianco, il suo diritto naturale ad espandersi e a farsi giudice e carnefice di chiunque ostacolasse la marcia dell’Occidente, i western di Sergio Leone, di Sergio Sollima, di Sergio Corbucci e di Giulio Questi rovesciavano il tavolo. Questi film facevano della vendetta personale, del tradimento, della cupidigia e della violenza assurda, folle ed insensata i veri motori della storia, spogliando la frontiera americana di qualsiasi mitologia redentrice. Ed è qui che il discorso si fa più grande ed estremamente attuale: quei film parlavano, e parlano ancora oggi, nel 2025, della brutalità di coloro che, ergendosi a poliziotti buoni del mondo, si credono giustificati ad imporsi sugli altri, anche ricorrendo alla guerra ed alla violenza, con il pretesto di esportare la giustizia, la libertà o l’ordine.
La pistola facile dei pistoleri di frontiera è la stessa mano armata che, dal dopoguerra fino ai nostri giorni, ha tracciato le linee invisibili tra la democrazia e le barbarie, sanzionato i governi sgraditi, imposto embarghi, rovesciato a proprio piacimento i regimi, fomentato instabilità e conflitti locali, con il solo scopo di stabilire e controllare chi potesse parlare, chi dovesse tacere e chi meritasse di essere solamente annientato.
“Il buono, il brutto, il cattivo” (1966), di Sergio Leone, ci mostra, appunto, l’assurdità della guerra; un film — ambientato nel pieno della Guerra di Secessione Americana – che mostra soldati nordisti e sudisti indistinguibili nella violenza e nella miseria e che ci evidenzia come la stessa guerra sia, in realtà, una gigantesca ed inutile macchina, bramosa solo di inghiottire vite e senso, mentre i tre protagonisti della storia rincorrono, a loro volta, oro e sopravvivenza. E la colonna sonora di Ennio Morricone, impastata di urla, di fischi e di chitarre distorte, è la vera voce della disperazione umana.
Ne “Il grande silenzio” (1968), di Sergio Corbucci, invece, la narrazione è ambientata nella neve, laddove il male è sistemico ed il bene, disarmato e disperato, è destinato a soccombere. Il protagonista è muto, proprio come i popoli che osano ribellarsi al potere dominante. Ed, intanto, un bounty killer, al soldo della legge, massacra persone indifese, senza alcuno scrupolo, e lo Stato, ovviamente, se ne lava le mani. “Faccia a faccia” (1967), di Sergio Sollima, è uno dei western più politici, perché ci mostra come anche un professore di Boston, simbolo della civiltà e della cultura “superiore”, possa scendere, progressivamente, nella barbarie della frontiera ed arrivare a diventarne complice e artefice di misfatti. Un’allegoria perfetta del colonialismo culturale e militare americano che, nel nome di valori astratti, sprofonda, spesso, nell’orrore. Ed, infine, “Se sei vivo spara” (1967), di Giulio Questi, estremo e disturbante nel rappresentare la sua apocalisse di vendetta, di sfruttamento, di sadismo e si sopraffazione, in un’America immaginaria dipinta come terra di sopraffazione sistematica, nella quale i valori della civiltà occidentale sono solamente le maschere ipocrite con cui giustificare crimini e violenze.
Questi western all’italiana, sotto la crosta di polvere, di pallottole e di mitici primi piani ravvicinati, mettevano in scena i rapporti tra gli oppressori e gli oppressi. La pistola di un bounty killer, oggi, non è altro che un drone, una bomba o un missile. I villaggi incendiati non sono che i teatri di conflitto odierni: Gaza, Rafah, Mosul o Tripoli, luoghi dove gli Stati Uniti, assieme ai loro fedeli alleati — Israele, Gran Bretagna, NATO — si sentono ancora investiti di un mandato moralmente superiore, così da poter decidere chi è legittimo e chi, invece, non lo è.
I western all’italiana intuivano, senza fare sconti a nessuno, che dietro ogni missione giusta c’è, quasi sempre, un affare, un’avidità, un tentativo di coercizione e di controllo, così come non esistono nazioni che possano, davvero, credere di esportare democrazia o diritti umani con la forza brutale delle armi. E le musiche di Ennio Morricone hanno raccontato, più delle immagini, questa decadenza morale e questo conflitto eterno tra inganno e resistenza. La sua arte — tra effetti sonori, arpeggi sinistri e cori lontani — è un richiamo cosmico al destino comune di chi vive ai margini delle grandi narrazioni della Storia. Ogni sua nota è un lamento per i vinti, un atto d’accusa contro l’ipocrisia di giustizia che le grandi potenze, soprattutto quelle occidentali, amano sbandierare. Il western all’italiana, dunque, non è solo un genere di culto, ma è una dichiarazione politica travestita da spettacolo popolare. È il racconto allegorico di un mondo che continua a replicare le sue dinamiche predatorie, mutando gli strumenti, ma non le intenzioni. Perché oggi, come allora, il vero duello non si combatte tra i buoni ed i cattivi, ma tra gli oppressi e gli oppressori, tra chi scrive le regole e chi le subisce. E, forse, vale la pena tornare a quei film ed a quelle musiche, per ricordarci che la Storia non è mai solo quella che i vincitori vogliono raccontare.
Ed è questo, ciò che quei film avevano compreso prima di molti analisti e commentatori, avevano capito che dietro ogni bandiera issata per difendere la libertà, la sicurezza o la pace, c’è un simulacro, un idolo finto, una maschera di cartapesta per giustificare sopraffazioni e massacri. Un copione recitato, oggi, senza vergogna, da leader spregiudicati, come Donald Trump e Benjamin Netanyahu, che, soprattutto il secondo, hanno fatto della propaganda bellicista verso l’Iran la propria religione politica, oltre, ovviamente, un utile diversivo per cancellare il dissenso interno e garantirsi il consenso attraverso il più antico degli inganni, ovvero il micidiale e pericoloso nemico esterno. Il premier israeliano, ossessionato dal potere e dalla violenza di Stato, ha utilizzato gli aberranti, abominevoli e crudeli assassinii del 7 Ottobre, per trascinare Israele in una spirale di sopraffazione e di apartheid, vendendo al mondo l’immagine di una nazione minacciata, quando è essa stessa, da decenni, minaccia permanente per milioni di vite civili palestinesi. E proprio come nei western all’italiana, i giustizieri di oggi vestono i panni dei buoni, ma sparano a sangue freddo su civili inermi, in coda per ricevere cibo ed assistenza. Parlano di ordine e di civiltà, ma lasciano, perennemente, dietro di sé, solamente rovine ed orfani.
E allora vale la pena tornare a quei film impolverati, alle chitarre stridule e ai fischi di Ennio Morricone, per ricordare che ogni frontiera disegnata col sangue, ogni crociata mascherata da missione di pace, è solo l’ennesima replica di un copione antico ed indegno. Perché chiunque venda la guerra come una necessità, un atto morale o un dovere di civiltà, sta, in realtà, mentendo. E i western all’italiana lo avevano già detto, molto tempo fa.
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