C’è un motivo se questo album si intitola “Self Titled”. È una dichiarazione che suona insieme confessione e manifesto, come a voler dire: io sono così, senza mediazioni, senza maschere, senza versioni addomesticate da offrire al mondo. Un lavoro che si rivolge in primo luogo all’artista e alla persona, che interroga il proprio riflesso e i frammenti dispersi di sé, disseminati nel tempo e nello spazio, nella vita esteriore e in quella segreta.
Il flusso emotivo che attraversa l’album si intreccia, di conseguenza, con paesaggi sonori cangianti, come se ogni brano fosse un’isola emotiva a sé stante e, insieme, un tassello indispensabile di un unico mosaico. Le immagini, che Kae Tempest evoca, traboccano di cruda verità, di ricordi che si riallacciano a vecchi fili spezzati, di tentativi ostinati di risanare ferite antiche che ancora sanguinano sotto pelle. Eppure mai, nemmeno per un istante, si avverte il rimpianto o il ripensamento. C’è piuttosto la consapevolezza che certe scelte, per quanto pericolose, controproducenti o scomode agli occhi degli altri, siano necessarie per restare fedeli a sé stessi.
Ciò che Kae Tempest ci suggerisce in alcuni passaggi, è l’urgenza di poter respirare liberamente, senza il peso di menzogne, di silenzi forzati o di costrizioni interiori; di non annegare in un oceano di recriminazioni e di rimorsi, di non trasformare la propria esistenza in un esercizio di sopravvivenza emotiva. In fondo, quello che Kae ci sprona a scegliere è ciò che, per noi, è naturale, istintivo, inevitabile, senza l’obbligo di chiedere il permesso o l’approvazione di qualcuno.
La struttura musicale riflette questa libertà interiore e stilistica: spoken-word asciutti e taglienti si alternano a derive più melodiche, ad episodi rap ed hip-hop che accolgono il disordine sentimentale come una risorsa, come un linguaggio che non chiede di essere decifrato, ma semplicemente vissuto. È il vento impetuoso della passionalità, delle emozioni che bruciano e pretendono di essere nutrite, che spinge questo album ad essere eterogeneo, affannoso, impulsivo e, a tratti, caotico. Ma forse è proprio questo il prezzo da pagare per essere vivi. E, più di ogni altra cosa, per essere sé stessi.
Ogni parola di “Self Titled” pesa, ogni verso è una cicatrice, ogni base è una pelle diversa indossata e subito lacerata per lasciarne intravedere un’altra. È un’opera che non cerca di rassicurare, né di consolare, ma solo di ricordare che il vero atto rivoluzionario, oggi, è non smettere di sentire, di percepire, di desiderare. Non fuggiamo più, allora, da ciò che ci scuote, ci spaventa e ci trasforma. E se c’è una lezione che questo disco lascia scolpita dentro, è che essere autentici è il gesto più radicale che si possa compiere in un mondo che ci vorrebbe sempre altrove, sempre altri, sempre uguali a qualcosa di pre-confezionato. Come, infatti, scriveva Oscar Wilde, “Sii te stesso; tutti gli altri sono già occupati“. E Kae Tempest, con questo album, ci mostra quanto possa essere difficile, caotico, pericoloso — e allo stesso tempo necessario, vitale, irrinunciabile — rispondere a quell’invito.
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