Ci sono luoghi in cui il tempo sembra fermarsi, dove l’evoluzione inarrestabile del mondo resta fuori, confinata in una dimensione altra, remota, come il brusio di una radio dimenticata in una stanza vuota. È tra le ossa e le gallerie umide delle catacombe di Parigi che le canzoni dei Queens of the Stone Age prendono un’altra vita — o forse sarebbe meglio dire che dialogano con la morte, si fondono con essa, ne assorbono il silenzio, restituendolo in forma di suono ammaliante.
Ogni accordo, ogni vibrazione, risuona tra i teschi in attesa, come mute sentinelle del passato. Le orbite vuote osservano i musicisti americani, come se riconoscessero nella musica un’eco primordiale, qualcosa di familiare che non ha più bisogno di nomi, né di titoli, di oggetti o di convenzioni, proprio come loro. La presenza quieta e immutabile di quei resti umani ci ricorda, senza parole e senza clamore, quanto sia fragile il nostro tempo, quanto siano futili le nostre battaglie quotidiane, i conflitti, le ansie di possesso e di affermazione. È un monito sottile, che ci suggerisce che tutto ciò che abbiamo creduto importante, tutto ciò che abbiamo accumulato, ogni ambizione e ogni rancore finiranno, alla fine, anch’essi nella polvere.
Eppure, questa immersione nell’oscurità non è un abbandono alla disperazione. Al contrario, il disco e le immagini che lo accompagnano sussurrano una verità semplice e disarmante: prendiamoci cura di noi stessi e degli altri, perché ogni cosa potrebbe sfuggirci, dissolversi in un istante, compresa la nostra stessa apparentemente invincibile e supponente esistenza.
In questo ambiente sospeso e sacrale, lontano dalle idiosincrasie del mondo moderno, la morte non è più un tabù da esorcizzare. Diventa presenza viva, compagna discreta che, anziché toglierci, sembra restituirci qualcosa, ovvero la consapevolezza, il contatto con il nostro lato più autentico, riflessivo e vulnerabile. Laddove nessuna tecnologia, nessun farmaco, nessuno slogan, nessun tumulto mediatico e nessuna invenzione possono intervenire e influenzarci, c’è ancora spazio per un’energia primitiva, per un dialogo intimo con la memoria, con le voci dei nostri defunti, con i sogni e i desideri rimasti bambini dentro di noi.
Non c’è paura nel buio delle catacombe, ma piuttosto una malinconia luminosa, quella che nasce dalla comprensione che ogni cosa è destinata a svanire — e proprio per questo è preziosa. Le note dei Queens Of The Stone Age, dilatate, meditative, armoniose ed avvolgenti, si confondono con gli echi di epoche passate, come se tutta la storia dell’umanità si riducesse proprio a questo, un canto fragile e struggente nel ventre della terra, contro l’oblio, contro l’abbandono. Questo lavoro non è solo un disco, né solo un film, è una testimonianza preziosa, una carezza al nostro io più segreto, un invito a ricaricarci di energie primordiali, a riscoprire la bellezza nella caducità, nel silenzio, nel contatto con l’assenza. Perché, forse, è proprio nel confrontarsi con la morte che si comprende davvero il valore imprescindibile della vita, di ogni vita.




![La Canzone Maledetta di Dino Campana [playlist]](https://www.paranoidpark.it/wp-content/uploads/2025/11/arton169343-140x90.png)





















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