C’è una musica che non nasce per assecondare il fragore assordante del presente, ma per scavare nei recessi profondi di ciò che è stato e di ciò che rimane, nel limbo di ombre che ogni essere umano si porta dietro. “Oscurità”, ultimo lavoro della band italiana L’Impero delle Ombre, è più di un disco, è, infatti, un viaggio notturno nelle pieghe crepuscolari dell’anima occidentale, laddove i poeti, da Thomas Gray ad Ugo Foscolo, hanno già, da tempo, innalzato i loro versi come fiaccole nel buio.
Le trame sonore di “Oscurità” si muovono, con grazia ferale e naturalezza inquieta, tra paesaggi immaginifici e atmosfere lisergiche, dove il doom-metal incontra echi gothic-rock, ballate sulfuree e riverberi di un progressive lunare. Otto brani che non raccontano solo storie, ma evocano visioni: cimiteri abbandonati sotto lune pallide, fiumi senza sponde, soglie che nessun piede terreno dovrebbe mai oltrepassare. È una musica che ricerca quella pace e quell’equilibrio che il nostro mondo iper-tecnologico ha sepolto sotto strati di rumore, di algoritmi impassibili, di schiamazzi digitali privi di carne e di spirito.
Come scriveva Thomas Gray nella sua “Elegy written in a country churchyard”: “the paths of glory lead but to the grave” Eppure, in “Oscurità”, quei sentieri si dilatano in una veglia sonica che abbraccia non solo la morte, ma la consapevolezza, serena e tragica, della propria irrilevanza cosmica, in un tempo in cui ogni cosa si misura con
sequenze, schemi e modelli pre-confezionati, tentativi disperati e ridicoli di simulare passioni, idee e pensieri, che le macchine non possiederanno mai davvero.
I riflessi doom e gothic di questo disco si specchiano in superfici cangianti, assumendo la forma di antichi inni terrestri che non temevano né l’oblio, né il giudizio divino, ma celebravano ogni respiro, ogni morte e ogni rinascita come parte di un medesimo disegno. Come ricorda Ugo Foscolo nei Sepolcri, “sol chi non lascia eredità d’affetti poca gioia ha dell’urna.” E in queste canzoni abissali e meditative, il lascito non è fatto di gloria, ma di emozioni inquiete, di dolori custoditi come talismani, di solitudini che risuonano come un canto sommesso nel cuore della notte. Il viaggio di “Oscurità” scivola, intanto, lungo le acque pure e gelide dell’Acheronte, attraversa l’antro cumano e si addentra nelle viscere magmatiche della madre terra, abbracciando il calore febbrile della roccia e il fuoco ancestrale del metallo. E poi, come per incanto, riemerge in una Firenze notturna e distorta, in quella celebre locanda — tra le più chiacchierate e scandalose — le cui pareti sono ornate di immagini di diavoli, demoni dalle fauci spalancate e dannati intenti a banchettare con i loro stessi vizi.
Lì, tra vapori infernali e bisbigli di povere anime in pena, L’Impero delle Ombre chiude il suo rituale sonoro, in compagnia di coloro che la società marchia ed isola, destinandoli all’oblio, al pregiudizio e all’eterna marginalità. Ma, come ogni vera oscurità, questa musica non teme la condanna, né cerca la redenzione, preferisce, invece, specchiarsi nella mostruosa immagine della civiltà, nelle sue ipocrisie abbaglianti e nelle sue misure compiacenti, rivendicando la libertà di raccontare l’indicibile, di evocare l’ombra, di danzare con i dannati. E in quella locanda senza tempo, sotto lo sguardo vigile dei diavoli, “Oscurità” trova il suo compimento: un abbraccio di tenebra e verità, di dolce disperazione e inesausta ricerca di senso.


























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