La strada percorsa da RosGos è un sentiero nudo, scavato nella terra friabile delle fragilità umane. “In This Noise” non sceglie la fuga scintillante offerta dalla modernità, né il rifugio artificiale di schermi digitali ed algoritmi, ma preferisce la luce incerta di un falò nel deserto, la chitarra che trema tra le dita come un respiro, la parola che non consola, ma rivela. È un disco che abita il silenzio e ne fa vibrare i nervi, che sussurra, lentamente, per dare spazio ad ogni crepa, ad ogni incrinatura emotiva, ad ogni pulsazione ritmica dei synth.
Il suo è un alternative-folk corrosivo, crepuscolare, annerito ai margini, che affonda le radici nelle poetiche scabre e notturne del grunge più intimo degli anni Novanta: e tra i suoi fantasmi più inquieti e febbricitanti, ritroviamo l’eco malinconica del primo Mark Lanegan e gli arpeggi ipnotici e dimessi dei dischi che non cercano il pubblico, ma la verità. RosGos si muove su quel crinale — voce e chitarra come due rami spezzati che, però, ancora crescono, ancora vivono, ancora graffiano l’aria. È musica che non vuole sedurre, ma confessare. Che non vuole intrattenere, ma interrogare.
La produzione, volutamente essenziale, spoglia il presente dei suoi gingilli, delle sue pose, delle sue finzioni e di quella patina social che maschera tutto e tutti. Qui non c’è trucco, non c’è posa, non c’è sovrastruttura. Ogni suono sembra scolpito nel legno, come se la chitarra fosse, essa stessa, un artigiano che lima e che scava, finché non trova la fibra più viva. Le canzoni diventano così un rito di sottrazione: togliere per tornare a vedere, togliere per tornare a sentire.
Il disco mostra la nudità dell’uomo contemporaneo — tremante, vulnerabile, pieno di vuoti insopportabili che tentiamo di riempire con oggetti, cose, mode, ansie, rimorsi, paure e frastuono. Eppure, “In This Noise” suggerisce un rovesciamento: quando il rumore si trasforma in suono interiore, quando la ferita smette di essere vergogna e diventa, invece, spiraglio, lì può filtrare la luce. Una luce tenue, non salvifica, ma vera. La voce la segue, si fa tremito, confessione, invocazione. Le chitarre la inseguono come maree, come vento tra le crepe di una casa disabitata.
“In The Dark” è la fenditura, è il punto di rottura. Nel suo soffio notturno sentiamo la corsa disperata verso un’alba del possibile, la fuga dalle disfunzioni artificiali del presente, dagli slogan che ci intossicano e istupidiscono. È il momento in cui ogni sussurro diventa un filamento di verità, ogni eco un’occasione di rinascita. Il buio non è più soltanto assenza, ma incubazione. Nella sua penombra, RosGos ci lascia in bilico — tra ciò che eravamo e ciò che potremmo ancora diventare. E quando l’alba arriva, non come certezza assoluta, ma come ipotesi luminosa, il nostro stesso rumore — le nostre mancanze, il nostro dolore irrisolto e le nostalgie mai rivelate — si fonde con quello del mondo. Diventa onda, diventa respiro, diventa danza, diventa parte del tutto. Non una fuga dalla realtà, ma un ritorno ad essa attraverso la crepa.
“In This Noise” è un disco che ricorda. Ricorda che siamo vivi finché tremiamo. Finché bruciamo. Finché rimaniamo in ascolto del nostro stesso rumore. Un rumore — finalmente — umano.


























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