martedì, Dicembre 9, 2025
Il Parco Paranoico

Quando Ero Alieno, Danilo Deninotti – Toni Bruno

Una tempesta — e non soltanto musicale — si abbatte, da oltre trent’anni, sulla nostra memoria collettiva. Libri, documentari, podcast, fanzine digitali e riviste storiche hanno tentato di decifrarne le correnti, di mapparne le onde. Tutti, più o meno, tornano a quel punto sulla costa del Pacifico nord-occidentale: lo stato di Washington, provincia estrema, umida e periferica dell’Impero Americano. Lì, tra pini bagnati di pioggia, strade grigie e garage che odoravano di muffa e di amplificatori surriscaldati, nacque un terreno fertile. Una miscela chimica di anomalie, desideri e frustrazioni pronta ad incendiarsi.

Era la metà degli anni Ottanta. Lì attecchirono l’apatia e il vuoto generati dalle politiche liberiste del reaganismo; lì crebbero giovani che rifiutavano lo sfarzo artificiale, teatrale e laccato dell’hair metal; lì si sviluppò un ecosistema comunitario fatto di radio locali, negozi di dischi indipendenti e band che suonavano, spalla a spalla, nei bar. Il punk e l’hardcore offrirono un’etica — DIY, urgente, ferita — mentre l’assenza di una vera rete digitale costrinse gli esseri umani ad essere più umani: incontrarsi, condividere strumenti, idee, birre, amplificatori, vita.

Da quella miscela nacque un boato. 1991: “Nevermind” come detonatore, Seattle come cratere, il mondo come eco. Il grunge fu, forse, l’ultimo vero rock nato dal basso: da sale prova, da scantinati, da corpi imperfetti e anime irrisolte. L’ultima rivoluzione sonora non programmata dagli algoritmi, non pianificata dai manager, non calibrata, solo ed esclusivamente, per vendere. Un movimento che prima di diventare moda fu sopravvivenza esistenziale.

Ed è a quel mondo — ai suoi margini, ai suoi tremori, alle sue ombre — che torna “Quando ero alieno”, il fumetto di Danilo Deninotti e Toni Bruno. Un’opera che non santifica Kurt Cobain, non lo eleva ad icona irraggiungibile, ma lo riporta a terra. Nel suo fango, nella sua tenerezza, nella sua fame d’amore.

Kurt non appare come mito — appare come ragazzo. Uno qualunque, uno fragile. Uno che ride male, che suona male, che vive male. Uno che cerca una casa come si cerca una canzone: inciampando. Le tavole lo raccontano nella sua normalità preziosa, quella che troppo spesso si dimentica, schiacciata sotto magliette vendute a trentacinque euro e playlist commemorative. È un Kurt alieno non perché venuto da altrove, ma perché estraneo al mondo che gli veniva imposto: scuola e famiglia che offrono solamente regole sterili, istituzioni che vedono ogni divergenza come una malattia, una società che idolatra il successo e deride la debolezza.

Il fumetto mostra la ferita prima del mito. Mostra l’adolescente prima del poster. Mostra l’umano prima dell’icona.

E con lui mostra un’intera generazione — la Generazione X — fatta di alieni e aliene in cerca di un linguaggio che non fosse autorizzato dai sessantenni ricchi, grassi e compiaciuti che occupavano i centri del potere mediatico ed economico. Ragazzi e ragazze che non accettavano di essere etichettati come deviati solo perché cercavano spazi nuovi, parole nuove, musiche nuove. Corpi che non volevano omologarsi, ma esistere.

Il grunge fu quella fenditura luminosa. Magica, pericolosa, irripetibile. Ma come ogni fenditura, si richiuse. Le major arrivarono come api attratte dall’odore del miele, il capitalismo culturale trasformò la protesta in un altro prodotto. “Nevermind”, in questo senso, fu, paradossalmente, aurora e tramonto: consacrazione e condanna. Quella rivoluzione nata per sottrazione venne ricoperta d’oro, di MTV, di moda, di brand. Il messaggio si distorse, la purezza evaporò, l’autenticità divenne merce.

Ed è contro questa distorsione che “Quando ero alieno” alza la voce. Forse non per riscrivere la storia, ma per ricordare ciò che la storia ha provato a cancellare: la possibilità di un rock che nasca dagli esseri umani, non da strategie commerciali o intelligenze artificiali. Una creatività che non chiede di essere “cool”, “instagrammabile” o virale. Una vita che non ha bisogno di filtri per essere credibile.

Il fumetto diventa così un invito dolce e feroce: tornare all’alieno dentro di noi. Ricominciare a guardare il mondo come fosse la prima volta. Accettare che siamo creature strane, imperfette, vulnerabili — e che in questo non c’è vergogna, ma una enorme possibilità. Perché forse il grunge non è mai morto davvero. Forse dorme nei nostri sussurri, nelle nostre insicurezze, nei nostri taccuini pieni di parole sbagliate. Forse è vivo ogni volta che qualcuno prende una chitarra per sentirsi meno solo. E “Quando ero alieno” ci ricorda proprio questo: che l’autenticità non si vende.

Si vive.

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About The Author

Michele Sanseverino è poeta, scrittore e ingegnere elettronico. Creatore della webzine di approfondimento musicale Paranoid Park (www.paranoidpark.it) e collaboratore della webzine IndieForBunnies (www.indieforbunnies.com), intreccia analisi critica e sensibilità letteraria in uno sguardo che attraversa musica, poesia e cultura contemporanea. Nel 2025 ha pubblicato la raccolta di poesie "Poesie Senza Parole: Cartografie Di Un Lato Nascosto", opera che esplora le zone d’ombra e le risonanze interiori del vivere. Nel 2025 ha pubblicato l'antologia "Cronache Dal Parco Paranoico: Canzoni, Visioni e Futuri Mai Nati", articoli tratti dalla webzine Paranoid Park che ripercorrono il nostro cammino dalla fine della pandemia ad oggi. Inoltre: "Ultravioletto: Riedizione Fluida" e "Frammenti Di Tempesta: Riedizione Fluida"

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