In Medio Oriente si continua a morire. Si continua a bombardare, si continuano a progettare guerre, si continua a minacciare, da più parti, la fine del mondo, come se essa fosse, ormai, un esercizio quotidiano, un rituale che non conosce tregua. Benjamin Netanyahu ha ordinato un nuovo attacco, questa volta contro l’Iran. Ed ancora una volta, Israele colpisce preventivamente, giustificando le sue azioni con la paura di ciò che l’altro potrebbe diventare in futuro, di quello che l’altro potrebbe fare in futuro.
Ma il paradosso è evidente ed è sotto gli occhi di chiunque voglia vedere, e il silenzio complice delle cancellerie occidentali, così come quello di una certa stampa servile, non può più nasconderlo. Israele è una nazione iper-armata, tecnologicamente avanzata, che domina, da anni, senza alcun problema, i cieli della regione, che dispone dei più sofisticati sistemi anti-missilistici, che controlla ogni spostamento, ogni segnale, ogni minaccia.
Ed è noto, sebbene nessuno lo possa, ufficialmente, ammettere, che Israele possegga armi atomiche. Armi costruite in segreto, mai dichiarate, mai sottoposte ad ispezioni, mai discusse in alcuna sede internazionale. L’AIEA non ha mai potuto mettere piede nei siti nucleari israeliani, né, probabilmente, lo farà mai. Eppure, oggi, proprio quello stesso Stato, che potrebbe annientare l’intero Medio Oriente, con un attacco nucleare, attacca, a sua volta, l’Iran temendo il suo potenziale nucleare distruttivo.
Ma l’Iran, ad oggi, è assolutamente dimostrato, non possiede armi atomiche. È da decenni bersaglio di embarghi, di sanzioni e di restrizioni. È isolato dai suoi vicini sunniti, dall’Arabia Saudita, dai regimi del Golfo, ed è stretto nella morsa delle difficoltà economiche e dell’ostilità occidentale. E, soprattutto, è costretto a sottoporsi ai controlli regolari da parte dell’AIEA.
Certo, il regime teocratico iraniano è tra i più repressivi, reazionari, violenti ed illiberali al mondo: nessuno, tra coloro che credono nella libertà, nella democrazia e nei diritti civili, può avere a cuore la sopravvivenza politica di un sistema dispotico che nega i diritti ai propri cittadini, e soprattutto alle proprie cittadine. Nessuno ha dimenticato l’uccisione barbara, ingiusta e vigliacca di Mahsa Amini, né il grido potente di “Donna, Vita, Libertà”, un grido di speranza e di umanità che ha attraversato, con coraggio, le strade, le piazze e le prigioni della Repubblica Islamica.
Ma, proprio per questi motivi, le azioni di Netanyahu non hanno nulla a che fare con la sicurezza, con la pace o con il diritto dei popoli a vivere senza paura. Anzi, sono il loro esatto contrario. Rappresentano l’ennesimo tentativo di compattare il proprio fronte interno, di evocare il pericolo imminente rappresentato da un nemico storico, di perpetuare un’eterna instabilità dell’area, di provocare una reazione iraniana che possa giustificare l’allargamento del conflitto, magari con il coinvolgimento americano.
Le sue scelte appaiono, sempre più, un modo per occultare le macerie etiche, morali e materiali, lasciate dopo il 7 ottobre del 2024. Sono il trucco sporco di un leader che, per nascondere una gestione disumana, arrogante e brutale della striscia di Gaza, ha, assolutamente, bisogno di un nuovo teatro di guerra e di una nuova paura da sventolare ai propri cittadini e votanti.
Perché, nella striscia di Gaza, ormai, non è più in corso una guerra. È in atto un genocidio. Una distruzione sistematica di vite, di case, di ospedali, di scuole, di strade e di sogni. E questo genocidio — non possiamo più fingere che non sia così — viene perpetrato dal governo di uno Stato, nato, a sua volta, sulle ceneri di un altro genocidio, quello del popolo ebreo, perseguitato e massacrato dalla furia nazista. È il più atroce dei cortocircuiti della Storia.
Non c’è nessuna equidistanza possibile. Né il cinismo ipocrita di chi paragona responsabilità impari. Non c’è nulla di civile, nulla di degno, nulla di strategico nel bombardare civili, nel far morire i bambini, le donne e gli anziani sotto le macerie, nel ridurre un’intera popolazione alla fame e alla paura. E non c’è nulla di eroico in chi, invece di costruire ponti, getta benzina sul fuoco di un conflitto che, da decenni, divora il futuro di due popoli e dell’intero Mediterraneo.
La musica, almeno quella che resiste al conformismo e alla propaganda, questo lo sa da sempre. È nelle canzoni che il disincanto si trasforma in rabbia, che il dolore diventa memoria, proprio come avviene con la playlist che accompagna questo nostro articolo, canzoni che continuano a vibrare contro il sangue versato nel nome del potere, delle ideologie assurde, della ricchezza, della follia.
Iniziamo, quindi, la nostra ideale raccolta con l’hyper-pop, industriale e nichilista, di Shygirl, che racconta un mondo prossimo al collasso, tra guerre mediatiche, iper-controllo ed una realtà che implode nel rumore di fondo di menzogne digitali e di violenza normalizzata. A raccogliere ed amplificare questa rabbia ci pensano anche i Run The Jewels, che, con feroce lucidità, denunciano le ingiustizie sociali, il razzismo sistemico e la brutalità di un potere che continua a schiacciare chiunque resti ai margini della società.
Il synth-punk minimale di Billy Nomates, con la sua voce recitata e la critica sociale disillusa, ci trascina, invece, in una distopia domestica fatta di insensibilità, di estraneità, di allarmi inascoltati e di apatia collettiva. Dovremmo incazzarci? Possiamo ancora farlo? È la domanda che risuona, feroce, nelle trame grime-punk dei Bob Vylan, autentici militanti sonori che urlano contro il privilegio bianco, il sessismo ed il militarismo di Stato.
Una domanda che trova eco anche negli attacchi frontali di JPEGMAFIA al suprematismo americano, al controllo esercitato dalle lobby delle armi e alle tante finte “missioni di pace”, dietro cui si cela, ovviamente, l’industria della guerra. Dissacrante, caotico, rumoroso, il suo rap elettronico è una scheggia impazzita nel cuore dell’impero a stelle e strisce.
A placare, solo apparentemente, questa furia, arriva il canto funebre, ipnotico e profondo degli Algiers, che intonano la loro marcia oscura contro le guerre razziali, il neo-colonialismo e la violenza imperialista, gli stessi fantasmi che infestano le strade d’Europa e che gli Sleaford Mods descrivono, con spietata precisione, nel loro ritratto disilluso di populismo becero, regressione sociale e nuove forme di servitù ideologica.
A chiudere, infine, questa colonna sonora della nostra disillusione, eccovi le atmosfere punk, massicce ed aggressive, degli IDLES, tra refusi di nazionalismo tossico, guerre di propaganda e manipolazione sociale, dove la rabbia non è più solamente un atto di protesta, ma una forma necessaria di sopravvivenza politica ed umana.
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