Girasoli, animali, la terra umida e viva, il verde brillante dell’Irpinia, che sembra respirare ad ogni folata di vento. Una fattoria rurale che diventa casa, rifugio laterale dai meccanismi, implacabili e opprimenti, di una macchina che, dietro le sue promesse di successo, di appagamento e di felicità, non fa altro, invece, che rubarci il tempo, l’energia, l’anima. Un ingranaggio perverso che ci svuota, mentre ci illude di colmarci. La realtà, intanto, prosegue il suo cammino di ansia e precarietà, disseminando trappole invisibili ovunque e trasformando il futuro in una perenne tempesta all’orizzonte. E così ci priva della gioia di ciò che abbiamo, delle voci che ascoltiamo e dei volti che ci sono accanto, spingendoci a desiderare altro, sempre altrove, sempre oltre, accumulando oggetti inutili che, presto, rinnegheremo e, quindi, getteremo via.
Eppure basterebbe osservare la Terra — gli animali, le piante, i fiori, i cicli della natura — per ricordarci il valore intrinseco del nostro presente, l’arte di fermarsi e di assaporare. Come è accaduto ieri sera, tra le luci tenui e il respiro della campagna irpina, nella magia quieta e discreta della fattoria Le Masserie Piano. Qui, la band indie-folk degli Upupayāma ha liberato le sue sonorità ancestrali, ammalianti e psichedeliche. Una musica che non resta in superficie, ma che penetra i recessi, più remoti ed oscuri, del nostro essere, risvegliando percezioni sopite e voci che non sapevamo nemmeno più di possedere.
È un rito, un equilibrio ritrovato; è la vita che si adatta, che rifiorisce dopo le catastrofi più tremende; è l’orizzonte visionario di un sogno
che la band emiliana traduce in suono vivido, richiamando le stagioni, i cicli naturali di morte e di rinascita, le forze invisibili che abitano il Creato e quegli interrogativi senza risposta che vagano tra le costellazioni e le galassie. Le chitarre, intanto, intessono trame eteree, coinvolgenti, profonde, ipnotiche, e tutto, attorno a noi, diventa ultra-terreno.
Il sogno si scioglie nell’aria, prende forma sotto le stelle silenziose, nel vento che ci accarezza con leggerezza, negli animali che trascorrono in pace la notte ed anche nelle persone che danzano una musica, al tempo stesso, antica e moderna, familiare e misteriosa, esotica ed intima. Suoni che affondano le radici nell’istinto primordiale e che esortano ad esplorare territori sconosciuti, non necessariamente lontani: a volte, infatti, l’altrove è la persona accanto a noi, la persona verso cui restiamo timorosi, diffidenti, incapaci di vedere che la nostra unicità trova senso solo nel riflesso di altre unicità, altrettanto significative, altrettanto preziose.
Questo, in fondo, è il nostro viaggio. Ed è anche la missione, il canto, il rito, il concerto degli Upupayāma, ovvero unire mondi apparentemente distanti tra loro, nonché culture, suoni, tradizioni e linguaggi differenti, per costruire, alla fine, una montagna comune e, cioè, un punto di osservazione più alto da cui guardare la vita, il mondo, e, ovviamente, noi stessi.


























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