Il Male non ha una data di inizio, né una data di scadenza. Si insinua lentamente, ha radici profonde, spesso invisibili. E, troppo spesso, esse vengono ignorate, rimosse, o peggio ancora, distorte. Il Male non comincia il 7 ottobre 2023, con l’attacco – terribile, disumano, da condannare senza “se” e senza “ma” – di Hamas. Anche se qualcuno si ostina a far finta che tutto cominci e finisca lì.
In realtà, il Male ha origini più antiche. È figlio dello spirito predatorio e colonialista delle potenze occidentali. Quando, nel 1917, la Gran Bretagna occupò la Palestina – allora abitata per il 90% da arabi (80% musulmani e 10% cristiani) e solo per il 10% da ebrei – l’obiettivo era strategico: mantenere il controllo sul canale di Suez e una significativa influenza politica nella regione. Così Londra iniziò a favorire l’immigrazione ebraica, l’acquisto di terre da parte dei coloni ebrei, e una progressiva alterazione demografica del territorio. Dal 10% del 1917, la popolazione ebraica salì al 17% nel 1929 e al 30% nel 1939. Per i palestinesi, era chiaro: si trattava di una colonizzazione europea, imposta sulla loro terra.
Le rivolte che ne seguirono furono represse con ferocia. Ma il progetto era evidente: negare l’autodeterminazione a una popolazione largamente maggioritaria, aspettando che l’equilibrio numerico si spostasse abbastanza da poterla concedere ad altri. Un cinismo che premiava l’interesse geopolitico britannico e occidentale, ignorando le promesse fatte ai popoli arabi nella guerra contro l’Impero Ottomano.
Il libro di Francesca Albanese non è un saggio di storia, ma la storia è necessaria, inevitabile, imprescindibile, perché senza la memoria non si comprende il presente. E il presente è quello che ci ha portati a Gaza, a Gerusalemme Est, alla Cisgiordania. Tutti territori occupati militarmente da Israele nel 1967, in aperta violazione del diritto internazionale e della risoluzione ONU 242, che imponeva, appunto, il ritiro immediato del loro esercito. Tutto ciò che Israele ha stabilito da allora – colonie, espropri, leggi – è illegale. In questi territori, occupati senza alcun diritto, Israele non può invocare l’autodifesa: è l’occupante. Sono i palestinesi ad avere il diritto di resistere, come accade in ogni contesto di occupazione militare, da sempre e ovunque. Proprio come gli ucraini resistono, oggi, all’invasione russa.
Due pesi e due misure minano la credibilità morale dell’Occidente. Israele, per più di cinquant’anni di occupazione illegale, nonché per le violenze a cui, oggi, stiamo assistendo quotidianamente, meriterebbe sanzioni ben più severe di quelle imposte a Russia, Iran o Corea del Nord: economiche, culturali, accademiche, sportive, scientifiche, tecnologiche, militari.
Francesca Albanese lo racconta attraverso gli occhi dei bambini, attraverso le storie di chi vive e sopravvive nella costante consapevolezza di non avere diritti. Di chi cresce sapendo di essere uno straniero emarginato nella propria terra. Con calma e lucidità, senza retorica, ma con una incrollabile determinazione, Francesca ci mostra come questa non sia una questione ambigua, dai contorni sfumati ed ombrosi: ci sono fatti, documenti, risoluzioni, leggi internazionali. E tutto parla chiaro. I palestinesi sono gli oppressi. Israele è l’oppressore.
Non solo a Gaza, ma anche in Cisgiordania, dove è stato costruito un vero e proprio regime di apartheid, simile a quello del Sud Africa degli anni ’80: checkpoint fissi e
mobili ovunque, spostamenti vietati, arresti arbitrari, punizioni abnormi, leggi militari per i palestinesi e leggi civili per i coloni. Una quotidianità aberrante che noi non accetteremmo nemmeno per un giorno, ma che tendiamo a giustificare solo perché avviene altrove, solo perché i nostri media ci fanno cadere nel tranello concettuale secondo cui palestinese = mussulmano = terrorista.
E invece no. Non si può accettare che bambini di sei o sette anni dicano di avere tre paure principali: morire, vedere morire i genitori e restare soli al mondo, o perdere la casa sotto le ruspe dell’IDF. Case fragili, precarie, che i nostri bambini sentono come rifugi sicuri e che, invece, per quei bambini, sono una minaccia costante.
Questo, e molto altro – documentato, raccontato, testimoniato – è ciò che rappresenta l’IDF, l’esercito di uno Stato con cui i nostri governi e le nostre aziende, come Leonardo, continuano a fare affari redditizi, supportando quella che è, ancora una volta, un’economia colonialista di guerra, occupazione, repressione e cancellando, dal proprio vocabolario politico, un termine che descrive esattamente quello che sta avvenendo ai Palestinesi: genocidio.
E poi ci scandalizziamo e bolliamo come anti-semite le parole scritte nel rapporto di Francesca Albanese, ci scandalizziamo delle posizioni pubbliche di Roger Waters, o dei Massive Attack, o di Brian Eno, o dei Fontaines D.C., o dei Kneecap o di tanti altri artisti. O se Bob Vylan canta, in coro, col pubblico del Glastonbury Festival: “fuck IDF!”.


























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