Derry non è solo un luogo dell’immaginazione: è una frequenza. Una vibrazione stonata che attraversa il tempo e si propaga come un acuto persistente nelle nostre orecchie, fino a trasformarsi in melodia dissonante. Una melodia oscura, disturbata, che ricorda certi brani dei Velvet Underground o dei Doors, dove il basso pulsa come un cuore in affanno e la chitarra taglia come una lama.
È anche il suono dell’America del 1962, l’America delle vetrine scintillanti e dei marciapiedi insanguinati, l’America che nasconde i cadaveri sotto le fondamenta e poi li copre con musica da jukebox.
Derry è un luogo malvagio, ma non perché malvagia sia la sua terra. La letteratura ci ha insegnato che questi luoghi “altri” non sono che specchi: riflettono la parte peggiore di noi, la parte che fingiamo di non vedere. Non esiste un luogo maledetto, esistono uomini e donne che rendono maledetto il mondo in cui vivono — con la loro indifferenza, con la loro avidità, con la loro capacità di voltarsi dall’altra parte. I veri mostri non vengono dal sottosuolo, ma dal salotto di casa, dalla scuola, dall’ufficio, dalla politica, dai social, da tutto ciò che travestiamo da normalità.
Nel primo episodio di questa nuova serie ambientata nel mondo di It (“IT Welcome To Derry“), i mostri mangia-fegato si nascondono dietro le sembianze di una famigliola borghese e ordinaria: padre, madre, figli. Sorrisi, convenzioni, buone maniere. Eppure, dietro quei gesti educati, dietro quella compostezza, c’è un odio che serpeggia come un riff elettrico pronto a esplodere. Questi mostri siamo noi — le nostre paure travestite da ordine e disciplina, le nostre frustrazioni camuffate da perbenismo e correttezza. La loro casa è il nostro cuore.
Pennywise non è un alieno. È una proiezione, un feedback sonoro, un rumore bianco prodotto dai nostri fallimenti morali. È l’eco di un’America razzista e maschilista, che, nel 1962, non aveva ancora imparato a fingere la tolleranza. È il volto deformato della Guerra Fredda, della paura del comunismo, della follia nucleare nascosta sotto la pelle della civiltà. Le viscere di Derry sono le stesse viscere che, ancora oggi, custodiscono micidiali testate atomiche, algoritmi di controllo, guerre silenziose e disinformazione di massa. Il male che Stephen King aveva intravisto allora è diventato sistema, architettura, infrastruttura: vive nella rete, nell’ipocrisia, nell’abitudine.
Il male, come il rock, ha bisogno di ritmo per sopravvivere. E Derry pulsa come una canzone dei Radiohead, un brano di Nick Cave, o un’invocazione elettronica dei Nine Inch Nails: un suono ciclico, ossessivo, quasi ipnotico. Ogni episodio sembra un disco oscuro in cui le note corrispondono a colpe e le pause ad omissioni. Ci troviamo immersi in una colonna sonora che non consola, ma inchioda alla verità: che siamo noi i creatori di Pennywise. È la musica di chi perde l’innocenza e la trasforma in cinismo, di chi scambia la compassione per debolezza e la bontà per ingenuità.
I bambini di Derry crescono e diventano adulti senza più immaginazione, ciechi alla luce, pronti a sacrificare ogni sogno sull’altare della convenienza. Diventano consumatori perfetti, soldati della
normalità, corpi che vibrano solo se il sistema lo consente. E così il Male trova spazio, suona la sua partitura, e trasforma la città in un teatro di ombre e di silenzi.
Ma tra quelle ombre, qualcosa ancora resiste: il suono della ribellione. Un arpeggio fragile, come la voce di una vecchia chitarra elettrica. È la voce di chi non accetta di diventare come gli altri, di chi continua a cercare un accordo giusto nel disordine generale. È la voce che, nei decenni, ha attraversato la musica e la letteratura, la voce che ritroviamo nelle atmosfere lisergiche dei Portishead, nelle armonie crepuscolari dei Sigur Ros o nelle tensioni apocalittiche dei Mogwai.
La voce che dice che l’inferno non è sotto di noi, ma intorno a noi — e che la salvezza, forse, sta nel riconoscerlo. La voce delle anime perdute di “Subterraneans” di David Bowie, minimale e malinconica o la voce di “Atmosphere” dei Joy Division, ogni suo passo echeggia in una marcia lenta e spettrale, mentre la pinkfloydiana “Careful With That Axe, Eugene” ci esorta a stare attenti, perché tutto appare tranquillo finché non arriva l’esplosione, il sussurro diviene urlo e la tensione divampa dal silenzio. Il male, infatti, si insinua lentamente, come il basso ossessivo di “Angel” dei Massive Attack, come il battito del cuore della città, oscuro e seducente.
Perché Derry non è un luogo inventato.
È un suono. È una nota stonata che risuona nel cuore di ogni città, in ogni epoca, dentro ciascuno di noi. E finché non troveremo il coraggio di ascoltarla davvero, continueremo a danzare, inconsapevoli, sotto il tendone del pagliaccio, applaudendo la nostra stessa paura.






![La Canzone Maledetta di Dino Campana [playlist]](https://www.paranoidpark.it/wp-content/uploads/2025/11/arton169343-140x90.png)



















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