venerdì, Dicembre 5, 2025
Il Parco Paranoico

Il Ritorno Alla Poesia Nella Musica Pop Italiana

[MILANO, “Ritratti di Fabbriche”, 1978-1980] 

C’è bisogno di verità.

Non di slogan, né di pose, né di parole calibrate per piacere ad un algoritmo.

C’è bisogno di parole vive, che tornino a sanguinare, che non abbiano paura di contraddirsi, di ferire, di illuminare.

Parole capaci di oltrepassare i sofismi e le buone maniere, e restituirci quel coraggio e quella determinazione che, troppo spesso, ci mancano, rendendoci tiepidi, indifferenti, complici. C’è bisogno, soprattutto, di riscoprire la semplicità verbale di una testimonianza sincera: non patinata, non costruita per essere condivisa, ma capace di sorprenderci e abbagliarci con la sua melodia nascosta. Le parole, quando tornano a vibrare, smettono di essere solo linguaggio: diventano suono, ritmo, canto. Tornano ad essere poesia.

E se la poesia, oggi, sembra un genere desueto, quasi svuotato di senso, ridotta a citazione da social o a sterile esercizio di stile, resta pur sempre l’arte più antica, una delle prime forme di canto degli esseri umani. Un’arte che il nostro Paese ha donato al mondo con voci immense e che ha sempre dimorato anche là dove nessuno se lo aspetterebbe: nella musica pop.

La poesia è stata sempre lì, sottotraccia, tra i solchi e i riverberi dei dischi, nelle canzoni di chi non si accontenta di “scrivere testi”, ma preferisce costruire i propri mondi. Autori come Alan Sorrenti e Rino Gaetano hanno già tracciato questa rotta decenni fa, portando la liricità dentro la modernità, ciascuno a modo suo: Alan Sorrenti con il suo cosmico abbandono, Rino Gaetano con la sua ironia tragica, il suo surrealismo politico, la sua capacità di trasformare il paradosso in rivelazione. Le sue parole cadevano come pietre nel linguaggio comune, come facevano i poeti satirici di un tempo: la denuncia che sorride, la verità che sbeffeggia il potere.

E prima di loro, a segnare il sentiero, c’erano i maestri: Franco Battiato, che ha trasformato la metafisica in pop, che ha fatto convivere Gurdjieff e l’elettronica, il Sufismo e l’avanguardia minimalista; Fabrizio De André, che ha riportato la poesia tra le strade, gli emarginati, gli ultimi, come un moderno Villon genovese; Lucio Dalla, che ha saputo fare della metafora un teatro visionario, un’epica dell’uomo comune, come solo un poeta nato può fare.

Oggi quel filo invisibile continua a vibrare.

Manuel Agnelli lo tende verso il buio, con una parola feroce e scultorea, che sembra dialogare con Saba e con il suo dolore nudo, ma anche con la crudezza urbana di Raboni. Cristiano Godano scava invece nell’anima contemporanea come un poeta crepuscolare intrappolato in un club noise: nelle sue immagini c’è l’eco di Sbarbaro, mentre procede nella polvere e la malinconia si trasforma in amplificatore, distorsione, confessione.

Umberto Maria Giardini attraversa visioni e nebbie, un mistico inquieto che sembra un Dino Campana reincarnato nella periferia post-industriale del XXI secolo. Vasco Brondi, invece, riporta la parola al suo stato febbrile e nomade: un poeta delle rovine e delle luci intermittenti, capace di attraversare la contemporaneità come un viandante mitico. Nella sua voce risuona l’eco dei poeti civili e visionari — Fortini, Pagliarani, Roversi — e quella urgenza lirica che cerca verità nelle crepe, nei margini, nel deserto emotivo delle nostre città.

Giovanni Truppi affronta la quotidianità come se fosse materia metafisica: un Montale con una chitarra elettrica, capace di trasformare il reale in parabola, il pop in pensiero civile. Paolo Benvegnù è il visionario di questa cometa: la sua realtà è sempre in bilico, misteriosa, in dissolvenza continua, come nelle poesie di Mario Luzi. Dente è l’artigiano della malinconia minuta, dei micro-sentimenti, del quotidiano che trema: un Pascoli che guarda la nebbia attraverso un synth e ci ritrova la propria fragilità.

E poi ci sono i moderni costruttori di mondi.

Andrea Laszlo De Simone crea universi sospesi, dove la nostalgia diventa stellare e il sentimento diventa paesaggio: un Sandro Penna con una band immaginaria alle spalle. Iosonouncane è l’erede di una poesia della materia, della terra, dell’abisso: dialoga idealmente con Amelia Rosselli, con la sua lingua spezzata e febbrile, con i poeti dell’apocalisse e del suono. La sua voce non consola, ma rivela, scava, disintegra e ricompone. E in questo panorama si muove anche Brunori Sas, con la sua capacità di raccontare la normalità come fosse un poema civile: un poeta gentile, ironico, capace di trasformare i gesti quotidiani in momenti epici, come un futuro erede della linea morbida e luminosa di Giacomo Leopardi, quello più intimo, fragile, umano.

Questa costellazione di autori non fa poesia sulla musica, ma dentro la musica. Le loro canzoni sono piccoli poemi contemporanei, che parlano d’amore, di assenza, di natura, di solitudine, di speranza e di morte — le stesse ossessioni che percorrono da secoli la nostra letteratura. Il pop si trasforma così in un laboratorio linguistico, dove convivono il lirismo e la sperimentazione, il ricordo e il futuro, l’emozione e la critica sociale.

È un ritorno alla poesia come bisogno civile, non come ornamento. Un ponte metafisico che unisce il passato e il presente, la musica e la parola, la città e il deserto, il rumore e il silenzio. Una ricerca incessante di nuove forme d’espressione che non rinnegano la loro radice, ma la amplificano: un pop che torna a essere arte totale, che si mescola con il jazz, con il folk, con la world music, con la musica concreta, con il rock più rumoroso, sperimentale e distorto, con il rumore del mondo.

Forse è proprio qui, in questo dialogo continuo tra suono e parola, che la poesia può rinascere. Non nei salotti letterari, ma tra le corde di una chitarra, tra le note di un sintetizzatore, tra i versi cantati da chi ancora crede che una canzone possa cambiare lo sguardo di chi ascolta. Perché, in fondo, la poesia — come la musica — non è mai morta: dormiva, e ora sta tornando a cantare.

Le foto che accompagnano articolo e playlist sono di Gabriele Basilico. Le sue fabbriche vuote, le strade immobili, le geometrie industriali raccontano una metafisica urbana che rispecchia l’anima delle canzoni: luoghi pieni di assenza che diventano, improvvisamente, pieni di significato.

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About The Author

Michele Sanseverino è poeta, scrittore e ingegnere elettronico. Creatore della webzine di approfondimento musicale Paranoid Park (www.paranoidpark.it) e collaboratore della webzine IndieForBunnies (www.indieforbunnies.com), intreccia analisi critica e sensibilità letteraria in uno sguardo che attraversa musica, poesia e cultura contemporanea. Nel 2025 ha pubblicato la raccolta di poesie "Poesie Senza Parole: Cartografie Di Un Lato Nascosto", opera che esplora le zone d’ombra e le risonanze interiori del vivere. Nel 2025 ha pubblicato l'antologia "Cronache Dal Parco Paranoico: Canzoni, Visioni e Futuri Mai Nati", articoli tratti dalla webzine Paranoid Park che ripercorrono il nostro cammino dalla fine della pandemia ad oggi. Inoltre: "Ultravioletto: Riedizione Fluida" e "Frammenti Di Tempesta: Riedizione Fluida"

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