“Dark Times” degli Ulan Bator si apre come un varco: un portale sonoro che ci trascina, immediatamente, nelle terre del Sogno, in quei paesaggi interiori in cui la realtà cede il passo all’enigma e la logica si sgretola sotto il peso dell’immaginazione. È un viaggio in cui panorami mozzafiato si alternano ad orizzonti carichi di tempesta, dove la luna cinematica del post-rock veglia su di noi come una sentinella antica, pronta a rispondere — o forse a tradurre — le nostre domande più inquietanti, più folli, più irrisolvibili.
Il nuovo lavoro degli Ulan Bator vive di scoperta e di mistero. È l’esplorazione di un continente emotivo che abbiamo smesso di abitare: quello delle percezioni pulsanti, impressionanti, fisiche, che l’esistenza sterile e fuggente degli ultimi anni — fatta di incontri virtuali, di relazioni sfilacciate e di falsificazioni algoritmiche — ha, brutalmente, disintegrato. “Dark Times” prova a ricomporre quei frammenti, a restituire densità al sentire, consistenza all’esperienza, spessore all’emozione.
E in questo territorio di sogno e rivelazione non può mancare la figura di Morfeo, il dio che plasma e modella la materia del sogno e dell’incubo, colui che scolpisce le immagini destinate a guidarci nei nostri abissi più segreti della notte. Morfeo aleggia tra le trame del disco come un custode silenzioso: protegge ed inganna, rivela e svia, regala visioni che sembrano profezie destinate a consumarsi alle prime luci dell’alba. È lui che ci invita ad attraversare questi “tempi oscuri” con il coraggio di chi sa che i sogni possono essere più veri della realtà stessa; lui che ci guida attraverso i paesaggi in cui la musica diventa un rito, una preghiera blasfema, un detonatore di consapevolezza.
“Dark Times” è il disco dei tempi cupi che abitiamo, un disco che riempie le vene di tormento, di elettroniche psichedeliche, di magnetismi sotterranei. Ma è anche un disco che guarda, con ostinazione, ad un futuro diverso, immaginifico, luminoso: una forma nuova di krautrock avanguardista che non teme di rompere gli schemi, di sfidare i modelli, di oltrepassare i confini tra gli stili. È un suono che pulsa come un motore quantico, un organismo vivo che respira nell’oscurità.
Il tunnel, sembra dirci il disco, è finalmente giunto al termine. Il buio a cui ci eravamo abituati — quel buio tiepido, rassicurante, in cui non eravamo costretti a guardarci davvero dentro — è stato spazzato via da una luce abbagliante. Una luce che ferisce e disorienta, che ci acceca e ci costringe a confrontarci con ciò che eravamo e con ciò che potremmo diventare. I nostri occhi, ancora fedeli alle vecchie immagini, faticano ad interpretare il cambiamento. Preferiscono l’illusione del familiare, alla vertigine del nuovo. Ma la libertà richiede esattamente questo: rompere le barriere inutili, i gusci nei quali ci sentiamo protetti ma che, in realtà, sono solo gabbie.
Perché non esiste protezione se non possiamo essere noi stessi. Non esiste protezione se non possiamo muoverci come desideriamo. Non esiste protezione se siamo costretti ad abbracciare scelte altrui e fingere che siano le nostre.
Questo è il vero inferno. Non avere possibilità di scegliere, chiedere, dubitare, sperare. L’inferno è l’assenza totale di libertà: quella che il mercato, la tecnologia, le piattaforme di streaming, le strategie aziendali cercano di sottrarci un anno dopo l’altro. E qui la musica degli Ulan Bator indica una strada alternativa e fragile, ma reale e luminosa, nonostante le ombre. La strada dell’esempio. Costruire qualcosa fuori dalle grandi multinazionali che controllano il mercato, i concerti, la distribuzione. Rifiutare gli accordi che sanno di sfruttamento e di umiliazione. Sottrarsi alle tenaglie dello streaming. Tornare ad un rapporto umano con il pubblico, diretto, imperfetto, sincero, imprescindibile.
Un percorso oscuro, difficile, sì. Ma l’unico percorso che permette di riscoprire il piacere di esistere davvero — come esseri umani, come musicisti, come creature che ancora credono nella possibilità di una luce autentica anche nel cuore dei tempi più bui e scontrosi. E “Dark Times” è quella luce. Una scintilla che non salva il mondo, ma ricorda che siamo ancora vivi. E che dobbiamo continuare a sognare.


























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