Gli acidi della deriva superficiale e sovranista degli ultimi anni, tra manie di persecuzione e ansie d’apparenza, tra la violenza vera e quella, ancora più subdola, del consenso, ci costringono a un ritorno. Non un ritorno nostalgico, ma viscerale: quello alle radici dissonanti e febbricitanti di una new-wave oscura, decadente e sgranata, che chiudeva gli anni Novanta per aprirci il millennio dell’assenza reale — un’epoca di spettri virtuali e di fantasmi digitali, di corpi filtrati e di idee riciclate, mai del tutto comprese ed assimilate. È la parabola dell’umanità smaterializzata: sorrisi a bassa risoluzione, rabbie compresse, carezze simulate.
Eppure, da questa deriva si può ancora uscire.
Il distacco, in questo caso, è un atto concreto. È il gesto dei Laguna Bollente, che scelgono di rifiutare le dinamiche dei processi mediaticamente ed economicamente ben oleati, per costruire una linea di approvvigionamento emozionale ed esistenziale personale, autentica, carnale. Una forma di resistenza che ci riporta al cuore pulsante del post-punk: non un’etichetta da scaffale, ma una
pratica viva, operosa, umana. Un modo di stare al mondo. I loro brani, divampando nel dissonante substrato urbano moderno, non cercano consolazione, ma verità: riflettono i dialoghi e gli umori della socialità contemporanea, ne mostrano la falsità e la spregiudicatezza, i timori infondati e l’ignoranza dilagante. Dentro questa materia viva si accende un mondo di riverberi disgraziati, di chitarre grezze e di synth allucinati e sensuali, che ci restituiscono — finalmente — i nostri corpi come sono: imperfetti, vibranti, pieni di vita.
Non più dentro il palazzo delle illusioni, dove tutto è levigato, perfetto, appetibile, ma privo di odore, di sapore, di rischio. Piuttosto dentro una vecchia casa di appuntamenti, di scambi lascivi, di fumo e nudità, dove le note si fanno carne e desiderio, e ogni imperfezione è una ferita che brilla e sfama. È lì che i Laguna Bollente ci portano, sulla loro laguna veneziana, tra il desiderio di piacere e quello — più profondo — di piacersi, di riconoscersi nella propria fragilità.
E in questo movimento verso l’altro, verso l’umano, si sente l’eco di Montale. Come in quei versi, dove il poeta scende “almeno un milione di scale” tenendo il braccio dell’amata — e solo allora, nel vuoto lasciato dalla sua assenza, comprende che il mondo, spesso, non è ciò che si vede, ma ciò che ci manca. Così anche noi, scendendo le scale del tempo presente, capiamo che la realtà non vive negli schermi o nei riflessi digitali, ma nel gesto di tendere una mano, nell’abbraccio che regge il peso del silenzio, nella musica che ci riporta, per un istante, alla verità dei corpi, degli abbracci e dei sensi.
I Laguna Bollente ci ricordano che la salvezza, oggi, non sta solo nel progresso tecnologico o nella fuga social, ma anche nella lentezza di uno sguardo, nella carezza imperfetta, nel coraggio di sporcarsi ancora di vita. E forse è proprio in quell’attimo — quando la dissonanza diventa armonia e il rumore si fa respiro — che il mondo torna, per un momento, a essere davvero nostro.


























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