Chiusi in una città murata, reclusi in una città oscura, densamente sopraffollata, nella quale, di fatto, nessuno stato, nessuna istituzione, nessuna politica è in grado di garantire il rispetto della legge, ma tutto è affidato alle potenti e selvagge triadi locali. Un luogo nel quale il confine tra bene e male è obliquo e indefinito. In questi spazi angusti, nei quali il tempo pare scorrere più velocemente, per poi fermarsi improvvisamente, risucchiato dagli innumerevoli abissi di sofferenza, sia fisica, che spirituale, nei quali è possibile imbattersi, si concentrano le sonorità metalliche della band americana. Un blues pesante e malvagio che sfocia in sonorità gravi e minacciose di matrice sludge, noise e post-hardcore, le quali si gonfiano via, via di dolore, mentre un invisibile virus si fa breccia nella carne, la infetta attraverso ferite perennemente aperte, prendendo il controllo delle nostre esistenze e spingendoci verso il baratro finale della follia, della rabbia e della cieca e inutile violenza.
L’album assume un alone cinematografico corposo; immagini drammatiche si susseguono dinanzi ai nostri occhi: crude visioni di sofferenza che allargano, sempre più, i confini della piccola città cinese, andando ad inglobare il mondo intero; un mondo che ha anch’esso i suoi oscuri e spregevoli padroni, i quali sono intenti a garantire per sé e per i loro amici ricchezze e privilegi materiali, calpestando continuamente quelli che sono i diritti delle persone comuni, sempre più ammassate, più omologate, più narcotizzate, costrette ad essere gli ingranaggi di un sistema sovranazionale di potere che si prende gioco della stessa verità, imponendo, grazie alla rete globale, la propria versione dei fatti, degli eventi e della stessa storia.
Tutto ciò rende le atmosfere del disco tossiche e nocive, il pessimismo aleggia tutt’intorno a noi e il Male raggiunge le radici stesse della Terra, costringendoci a rifugiarci in un mondo astratto e virtuale, nel quale crediamo, erroneamente, di poter trovare il nostro spazio, il nostro destino, la nostra felicità. Ma essi sono altrove, oltre i tetri orizzonti di “Utopian”; oltre i bassi profondi, le distorsioni e i martellamenti di “Oxygen Tent”; oltre le ambientazioni da ultimo duello di “You Had A Plan”; oltre tutta la tristezza, la merda, la droga, gli inganni, le ipocrisie, le solitudini, le false promesse, il terrore, la brutalità e i suoni roventi che governano questo spettrale formicaio di acciaio, cemento, plastica, carne e byte che chiamiamo casa. In realtà dovremmo abbattere tutto ciò che attorno a noi è superfluo ed artificiale; tutto ciò che pensiamo sia utile, ma che, invece, serve solo a tenerci buoni e mansueti, assuefatti alla falsa idea che dentro c’è il bene, mentre fuori ogni cosa, ogni persona, ogni evento, ogni parola, ogni suono sia il male. Finché non demoliremo dalle fondamenta questo modo di pensare e di relazionarci col prossimo e con ciò che abbiamo attorno, noi non potremo mai essere liberi e quindi non troveremo mai un vero spazio, un vero destino, una vera felicità.
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