venerdì, Dicembre 5, 2025
Il Parco Paranoico

Le Stanze della Sofferenza. Dai manicomi, alle prigioni, agli hotspot.

C’era una volta un’Italia sommersa e dimenticata, un’Italia di visi spaesati, di corpi ingabbiati, di silenzi più fragorosi di qualsiasi urlo. Un’Italia che sopravviveva ai margini, invisibile eppure concreta, sospesa tra mura screpolate e cancelli arrugginiti. Era l’Italia delle fotografie in bianco e nero di “Memoria di classe“, un libro doloroso e necessario, firmato da Gianni Berengo Gardin e da Carla Cerati, che, per la prima volta, svelava, al grande pubblico, l’orrore quotidiano dei manicomi italiani. Luoghi di reclusione e di abbandono, dove il disagio mentale veniva rinchiuso come un crimine e nascosto agli occhi del mondo, prima che la legge Basaglia tentasse di scardinare, a poco a poco, quella tragica oscurità.

Immagini crude, volti veri di uomini e di donne spogliati della propria identità, alienati non solo dalla società, ma anche dalla propria carne. Una condizione che, oggi, sotto altre forme e altre etichette, purtroppo, ritorna a vivere. Si annida nel nostro affollato e più volte condannato sistema carcerario, nei nostri hotspot e nei centri di accoglienza per migranti, in tutte quelle stanze della sofferenza dove il tempo sembra essersi fermato e la dignità umana viene archiviata come un fastidio burocratico. Un parallelo pericoloso, una linea d’ombra che attraversa i decenni e che continua a proiettare la sua ombra sugli ultimi.

Ecco perché il senso di alienazione, la claustrofobia mentale, il dolore sordo e senza nome non sono rimasti intrappolati nelle vecchie fotografie di “Memoria di classe“. Hanno viaggiato, si sono fatti musica, parola, poesia. Sono diventati canto di chi, immerso nel rumore sordo della modernità, ha saputo intercettare quei gridi sotterranei e disturbanti. La sensibilità di alcuni artisti, di alcune band, è riuscita a trasformare quel dolore invisibile in suono e in racconto.

Ne sanno qualcosa i CCCP – Fedeli alla linea, che nel 1986 pubblicano “Io sto bene“, un brano che è insieme slogan e confessione. Quella frase ripetuta con ostinazione, ostentata come una rassicurazione, denuncia, invece, un enorme disagio esistenziale, un desiderio viscerale di fuga da una società asfissiante ed ipocrita, un atto di ribellione contro la maschera grottesca che nasconde il collasso della nostra stessa umanità. E potremmo continuare con “Lithium” dei Nirvana, una preghiera scomposta e dolente, in cui quiete e rabbia si alternano come le fasi di un’anima in perenne bilico tra accettazione e auto-distruzione. Un inno alle anime inquiete, ai soggetti instabili, ai corpi malati di dolore. Il senso di isolamento diventa materia sonora in “Isolation” dei Joy Division, una canzone spoglia e lancinante, in cui la voce di Ian Curtis sembra provenire, davvero, dalla stanza imbottita di un manicomio. Una voce che racconta di chi si sente tagliato fuori, non solo dalla società, ma da sé stesso. A questa dolorosa scia si aggiungono “Infected” dei Bad Religion, che indaga il contagio mentale e il dissolversi dell’individualità nel dolore collettivo, e “Wake Up” dei Mad Season, confessione struggente di un Layne Staley circondato da demoni troppo potenti per essere domati.

La letteratura, così come la musica, la fotografia o la pittura, hanno sempre avuto il coraggio di frequentare questi margini frastagliati della nostra mente, raccontando labirinti interiori fatti di colpe, di nevrosi urbane, di depressioni sommesse, di solitudini invisibili. Tutti figli, in fondo, di quella stessa madre nera che fu Mary Shelley, la quale in “Frankenstein” ci aveva avvertiti: “nulla è così doloroso per la mente umana quanto un grande e improvviso cambiamento”. Perché è proprio il cambiamento inatteso a sbriciolare le nostre certezze, a lasciare anime nude e smarrite, prigioniere dei loro feroci demoni interiori.

E così, nonostante il tempo passato, le immagini di quegli occhi persi, di quelle mani tremanti, di quei corpi violati ritornano a vivere. I manicomi sono stati chiusi, sì, ma altre stanze buie resistono, popolate dagli stessi fantasmi di angoscia, di ansia, di paura, di follia e di rabbia. Storie che continuano a raccontarsi anche in musica: pensiamo, ad esempio, a “Heroin” dei Velvet Underground, un brano che, con la sua intensità cruda e ipnotica, esplora il confine sottile tra la sofferenza fisica e quella mentale. Il brano narra l’esperienza e il viaggio di chi si perde nel corpo e nella mente, cercando una via di fuga attraverso il buio. La ripetizione ossessiva di quel verso, “I don’t know just where I’m going” – non so proprio dove sto andando – è il canto di chi, intrappolato in un ciclo di disperazione, è incapace di trovare la propria strada. La canzone, con il suo ritmo incessante e la sua tensione palpabile, diventa l’inno di chi vive un’esistenza sospesa, intrappolata tra la realtà e il delirio, tra la vita e la morte, tra la follia e la lucidità.

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About The Author

Michele Sanseverino è poeta, scrittore e ingegnere elettronico. Creatore della webzine di approfondimento musicale Paranoid Park (www.paranoidpark.it) e collaboratore della webzine IndieForBunnies (www.indieforbunnies.com), intreccia analisi critica e sensibilità letteraria in uno sguardo che attraversa musica, poesia e cultura contemporanea. Nel 2025 ha pubblicato la raccolta di poesie "Poesie Senza Parole: Cartografie Di Un Lato Nascosto", opera che esplora le zone d’ombra e le risonanze interiori del vivere. Nel 2025 ha pubblicato l'antologia "Cronache Dal Parco Paranoico: Canzoni, Visioni e Futuri Mai Nati", articoli tratti dalla webzine Paranoid Park che ripercorrono il nostro cammino dalla fine della pandemia ad oggi. Inoltre: "Ultravioletto: Riedizione Fluida" e "Frammenti Di Tempesta: Riedizione Fluida"

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