Quando la KEXP di Seattle punta le sue antenne diaboliche verso una band, non è mai un caso. È un segnale, è un richiamo ancestrale, è il fremito di una bussola radiofonica impazzita che indica il luogo esatto in cui il rock ‘n’ roll, quello vero, quello febbrile e viscerale, sta ancora bruciando sotto le ceneri di un mondo in decomposizione. Ed è proprio lì che troverai Frankie And The Witch Fingers: una congrega elettrica californiana, un rituale acido e psichedelico in grado di trasformare un’esibizione in qualcosa di concreto, di permanente, di possente e di mitologico. Giusto, allora, farne un vero e proprio disco.
Sul palco non suonano: incendiano. I loro groove garage e funkeggianti sono fendenti che tagliano l’aria, le chitarre ringhiano come bestie feroci affamate e le ritmiche pulsano con la forza brutale di un cuore che si rifiuta di smettere di battere. È un attacco frontale, un’esplosione incontrollabile di suono, vibrazioni, balli e sudore, che ti colpisce dritto in petto, ti scaraventa a terra e poi ti rialza, per farti guardare in faccia quella verità scomoda che, da troppo tempo, preferiamo ignorare.
Perché la loro musica non è solamente intrattenimento: è una veemente denuncia, è rito purificatore, è l’apocalisse annunciata e, al tempo stesso, una preziosa promessa di rinascita. Inseguono orizzonti sonori massicci, cieli elettrici e senza stelle, cercando di scrostare lo sporco velo che ci hanno calato sugli occhi. Quello che nasconde le lande desolate di rifiuti tecnologici, gli edifici divorati dalla ruggine, le fabbriche sventrate ed abbandonate, come le carcasse di una creatura post-industriale e una natura avvelenata, sfinita ed umiliata, che prova ancora a respirare sotto colate di cemento, asfalto e fiumi di plastica.
Le città si trasformano in deserti ostili, covi di nevrosi e solitudine, e le persone — sempre più instabili, deviate, stravolte — si aggirano, come spettri, alla ricerca di un’identità che il sistema neoliberista ha provveduto a smantellare pezzo dopo pezzo. È in questo contesto che i cinque stregoni californiani confezionano il loro spettacolo: vibrante, spasmodico, nervoso, deciso a gettare una luce abbagliante su tutto il marciume contorto che ci abbrutisce e ci distrae.
L’obiettivo? Semplice e radicale: abbattere il nichilismo imperante, sferrare un colpo violento contro l’apatia collettiva, riversare, sulle rovine di questo mondo allo sbando, tutto il fuoco selvaggio delle loro trame ruvide ed infernali. Rimettere il sangue in circolo, far pulsare il cuore, risvegliare la mente e restituirle la capacità di sognare, di immaginare, di creare. Di concepire visioni e narrazioni fantastiche che, se solo trovassimo il coraggio di inseguirle, potrebbero, persino, trasformarsi in realtà tangibili. Perché il rock, quando è fatto così, non è mai solo musica. È una possibilità. Un varco. Una crepa. Un passaggio.
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