“Pe’ahi” è un album che tenta di inseguire l’impossibile, di trovare un fragile equilibrio tra dolcezza e distorsioni, tra la carezza di una melodia e la lacerazione di una chitarra che geme sotto il peso del presente. È il respiro urgente di chi avverte, con chiarezza spietata, che il tempo a disposizione non è infinito e che, prima o poi, qualcuno staccherà la spina agli amplificatori, lasciando solo il silenzio a raccontare ciò che è stato.
Viviamo schiacciati da una moltitudine di bilanci e di sentenze, sommersi da numeri che pretendono di sintetizzare e di contenere realtà complesse, contraddittorie, malate, tossiche, che ai più non interessa davvero conoscere, se non quando queste sfiorano il loro personale tornaconto. E in quei numeri, in quelle statistiche che ammantano di presunta oggettività la nostra esistenza frammentata, ci siamo anche noi, con tutte le nostre colpe e le nostre imperfezioni, con il nostro oscillare disperato tra un tentativo di redenzione e una condanna autoindotta.
Mentre le melodie si fanno più stridenti e i muri sonori dei Raveonettes raggiungono il loro apice claustrofobico, ritmico e febbrile, l’elettricità diventa il varco magico attraverso cui i nostri sensi e i nostri incubi possono fuggire, materializzandosi in un club newyorkese avvolto nel fumo, in un’oasi polverosa nel deserto californiano, in un concerto dei Velvet Underground dove i feedback sono più veri delle stesse parole. O nel cratere di una luna immaginaria, fatta di riverberi e di synth abbaglianti, mentre il dolore si trasforma in luce.
Ciò che il duo danese sembra voler sussurrare — o forse urlare — è la consapevolezza di un’umanità che ondeggia, senza pace, tra una nostalgia furiosa e il disgusto per ciò che sta facendo del proprio mondo, dei propri sentimenti, dei propri legami: un paradiso artificiale corrotto, un giardino terrestre pronto a deflagrare, popolato di volti e di atteggiamenti falsi, di gesti fasulli, di necessità costruite ad arte. Una contaminazione che corrompe tutto ciò che di reale, immaginario, visionario o creativo osi ancora respirare. Eppure, in mezzo a questo collasso emotivo e culturale, rimane una via di salvezza: l’autenticità. Anche se, come sapeva bene Lou Reed, “there’s a bit of magic in everything, and then some loss to even things out.”
Perché essere autentici significa, spesso, esporsi, mostrarsi vulnerabili, rinunciare alle maschere, perdere qualcosa per poter continuare a sentire davvero qualcos’altro, di più importante e di più profondo. “Pe’ahi” è il suono di questa perdita e di questo tentativo, il tentativo di restare vivi, intanto che, tutt’intorno a noi, ogni cosa diventa caos.




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