lunedì, Dicembre 15, 2025
Il Parco Paranoico

1985-2025: il Live Aid che non potremmo più permetterci

13 luglio 1985.

Non fu soltanto una data, ma un istante sospeso nella storia della musica e dell’umanità: milioni di persone, sparse per il mondo, che, per una volta, si unirono sotto un’unica bandiera, quella della solidarietà e della lotta contro la fame e la povertà. Una voce collettiva, potente, unita, che chiedeva di combattere e di cancellare le carestie dall’Africa. Quello fu un giorno in cui il pianeta sembrò, per qualche ora, parlare una sola lingua.

Oggi, a quarant’anni di distanza, ci chiediamo se sarebbe ancora possibile riunire così tante persone attorno ad un obiettivo comune, superando i tanti “se”, i “ma”, i “però”, che, puntualmente, frenano ogni tentativo di costruzione collettiva. Forse, se si parlasse ancora di fame, o di povertà, o di siccità, potremmo ancora nutrire qualche flebile speranza. Ma se, invece, il tema fosse la guerra? Se fossero i diritti civili negati? Se fossero le moderne, raffinate, inique e mortali politiche di razzismo e di apartheid? E se si trattasse, ancora più apertamente, di un genocidio, riusciremmo, ancora, a smuovere cuori, coscienze e folle? Troveremmo appoggi, sostegni e collaborazioni da parte di Stati, di istituzioni, di organizzazioni e di aziende globali, o ci ritroveremmo avvolti nel gelo dell’indifferenza, della avversione, del silenzio e della paura?

Ecco, allora, la domanda inevitabile: oggi sarebbe possibile organizzare un nuovo Live Aid? Chi, tra artisti e band, sceglierebbe di esporsi, di impegnarsi e di condividere la stessa battaglia? O anche lì, come ovunque, in quest’epoca così divisiva e relativista, verrebbero fuori dei distinguo, delle differenze incolmabili, dei timori, degli interessi personali e delle vedute inconciliabili?

All’epoca, sul palco, si susseguirono esibizioni leggendarie – i Queen, David Bowie e gli U2 su tutti.  Oggi, chi potrebbe mai attrarre due miliardi di spettatori collegati da 169 paesi diversi? Bob Geldof, allora, non immaginava davvero la portata di ciò che stava creando e realizzando. Lo comprese strada facendo, quando si rese conto che quel concerto, che vedeva artisti diversi, con idee diverse, con sensibilità diverse, con storie diverse, unirsi per un’unica causa, era, ormai, qualcosa di reale, di vero, di concreto e di tangibile. Qualcosa capace di portare aiuto sostanziale ad intere nazioni in difficoltà. Il Live Aid, infatti, raccolse ben 140 milioni di dollari, una cifra che cambiò davvero le sorti di molti in Etiopia e in altre terre africane ferite e sconvolte dalla carestia.

E oggi? Potremmo ancora costruire un evento musicale capace di portare sostegno reale a chi soffre, a chi viene ucciso, a chi è ridotto al silenzio, a chi è imprigionato e torturato, a chi vive rinchiuso in una di terra devastata e martoriata, sotto i missili, i droni e le bombe, a chi teme il proprio stesso governo, a chi non ha più né un presente, né un futuro, e decide, dunque, di rischiare la vita attraversando il mare o camminando in un arido deserto?

Probabilmente, i nostri governi, con quei soldi, comprerebbero altre armi, convinti che la deterrenza — come nel Novecento — sia l’unica via per ottenere pace, sicurezza, prosperità e stabilità. Ma a quale prezzo? Quella presunta stabilità occidentale, cosa significa per chi abita, da sempre, in teatri di guerra quotidiani, o per chi vive sotto governi dispotici, tirannici, autoritari e sanguinari?

A essere onesti, oggi sarebbe impossibile immaginare un Live Aid per i diritti civili o per la pace o per la giustizia. Quanti promoter, quanti organizzatori di eventi, quanti artisti sarebbero disposti ad affrontare le rappresaglie economiche, mediatiche, finanziarie e tecnologiche dei governi, delle aziende e dei poteri più ricchi, armati e pervasivi del pianeta?

La verità? Nessuno.

Viviamo aggrappati a poche voci fuori dal coro, a rari atti di coraggio di qualche artista isolato, sperando che qualcosa, da qualche parte, possa migliorare. Ma è, ormai, un sogno utopico. Cambiano i nomi dei presidenti e dei dittatori, cambiano i luoghi, le battaglie e le guerre, ma il disegno del mondo resta immutabile.

Noi, non scordiamolo, ancora oggi, il 13 Luglio del 2025, a quarant’anni di distanza dal Live Aid, siamo ancora quelli che:

Brezhnev ha preso l’Afghanistan,
Begin ha preso Beirut,
Galtieri ha preso la Union Jack
E Maggie, a pranzo, un giorno, ha preso un incrociatore a piene mani,
apparentemente per fargliela restituire.

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About The Author

Michele Sanseverino è poeta, scrittore e ingegnere elettronico. Creatore della webzine di approfondimento musicale Paranoid Park (www.paranoidpark.it) e collaboratore della webzine IndieForBunnies (www.indieforbunnies.com), intreccia analisi critica e sensibilità letteraria in uno sguardo che attraversa musica, poesia e cultura contemporanea. Nel 2025 ha pubblicato la raccolta di poesie "Poesie Senza Parole: Cartografie Di Un Lato Nascosto", opera che esplora le zone d’ombra e le risonanze interiori del vivere. Nel 2025 ha pubblicato l'antologia "Cronache Dal Parco Paranoico: Canzoni, Visioni e Futuri Mai Nati", articoli tratti dalla webzine Paranoid Park che ripercorrono il nostro cammino dalla fine della pandemia ad oggi. Inoltre: "Ultravioletto: Riedizione Fluida" e "Frammenti Di Tempesta: Riedizione Fluida"

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