L’ottavo disco degli Stella Diana, “Everything goes through the light”, si accende come un improvviso bagliore nell’oscurità densa e conflittuale dei nostri giorni. Non un’oscurità quieta, ma un buio febbrile, carico di terrore e di incertezze, nel quale le nostre paure si amplificano fino a deformare ogni gesto, ogni atteggiamento, ogni speranza. Eppure, il numero otto, simbolo d’equilibrio e di infinito, ci appare come un monito, un invito silenzioso a ritrovare un’armonia ormai smarrita: la nostra stella, però, si è inclinata pericolosamente, come un corpo celeste prossimo al collasso, e i venti della distruzione paiono aver sopraffatto ogni residuo di empatia e ogni fragile scampolo di umanità.
Viviamo un tempo in cui la fame torna ad essere arma e strumento di potere, un mezzo feroce per annientare interi popoli, privandoli di futuro attraverso la morte dei propri figli. Non è solo questione di simboli o di segni cosmici: è la brutale concretezza delle azioni, delle scelte, delle compiacenze, degli accordi, degli affari. Sporchi, indicibili affari su cui
lo shoegaze degli Stella Diana riversa la sua malinconica e veritiera luminosità, trasformando il dolore e la disillusione in un canto che non consola, ma, almeno, prova a resistere. È un disco che sembra sospeso tra la condanna del presente e l’attesa ostinata di un domani che possa suonare, finalmente, diverso: un ritorno, un rinnovamento, una possibilità di riscatto, una strada che si biforca e che ci invita a deviare dall’abisso.
I dieci brani che compongono l’album diventano così spazi sonori nei quali le nostre solitudini metropolitane trovano una cassa di risonanza. Quartieri deserti, piazze affollate eppure mute e indifferenti, città che non promettono più nulla se non conformismo e alienazione; e in questi scenari ci scopriamo automi, macchine, ingranaggi che misurano e che calcolano persino i sentimenti, mentre i legami si dissolvono, le parole si spengono e i sorrisi si fanno maschere. La musica degli Stella Diana, con le sue chitarre dilatate e la sua ipnotica nostalgia, squarcia questa aridità come un bagliore intermittente, ricordandoci che la luce non è mai del tutto estinta.
Ma cosa resta, allora? Forse solamente una spirale interminabile, il cerchio chiuso di una vibrante “Last Days”, che suona come un eco delle nostre vite sospese: ciò che poteva accadere e non è accaduto, ciò che ancora vorremmo vedere accadere. Una memoria del futuro, una speranza fragile, ma pur sempre una speranza. In fondo, “Everything goes through the light” è una lanterna accesa nel buio, un atto di coscienza poetica contro il vuoto vorace e famelico, un invito a guardare ancora verso quella luce che filtra, ostinata, nonostante tutto.


























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