Strati sonori che respirano, si attraggono, si dissolvono l’uno nell’altro come galassie in collisione. “X-ÆON”, l’ultimo lavoro dei Giöbia, è una comunione osmotica di suoni e visioni, un mosaico di itinerari psichedelici che rincorrono il dio del tempo e ne colgono i riflessi, evocando epoche passate e futuri ipotetici. La loro musica, intrisa di hard-rock e di progressive-rock, costruisce dal nulla architetture sonore immaginifiche, potenti, vertiginose — come astronavi che viaggiano negli abissi del cosmo o che si addentrano nelle viscere incandescenti della Terra. Ovunque ci sia qualcosa da scoprire, una verità da illuminare, un sogno da riportare alla luce, i Giöbia sono lì, in ascolto del mistero.
Ogni brano è un portale che conduce altrove: il magma di space e di psych-rock si trasforma in un linguaggio totale, un codice di connessioni segrete tra il visibile e l’invisibile. “X-ÆON” è un oggetto non identificato, proveniente da una dimensione lontana e insieme intimamente nostra: un luogo indefinito in cui l’umano e l’alieno, il reale e l’immaginifico, il materiale e lo spirituale, il profano e il divino si riflettono reciprocamente, fino a fondersi. Attraverso questo specchio sonoro, i Giöbia ci mostrano una verità semplice e spiazzante: la natura degli esseri umani, quella delle costellazioni, delle pietre e delle creature invisibili che abitano l’universo, è la stessa.
Tutto vibra, tutto respira la stessa energia primordiale.
In questo spazio sospeso tra scienza e mitologia, tra impulso e contemplazione, la musica diventa uno strumento di conoscenza, una febbre psichedelica che ci riconduce all’origine, un rito iniziatico di suono e di luce. Non potremo mai afferrare ciò che è pura energia, ma possiamo sentirne il vigore e la risonanza dentro di noi — la ritmica tellurica, le chitarre che si aprono come fratture cosmiche, i sintetizzatori che sussurrano come stelle lontane. È un battito che vibra sotto la pelle e nel buio dello spazio profondo, dal quale, ancora oggi, giungono segnali che non sappiamo decifrare. Forse non li capiremo mai, perché non sono linguaggi logici o codici simbolici: sono sentimenti, idee, visioni, emozioni che attraversano il tempo e che la tecnologia non può tradurre. La chiave di decodifica è la nostra stessa umanità, e tutto ciò che da essa nasce — arte, cinema, letteratura, poesia, musica — strumenti fragili, ma eterni con cui proviamo, da sempre, a comunicare con l’infinito.
Così “X-ÆON”, nei suoi otto brani di rock ipnotico, diventa un vocabolario segreto del mistero, un dizionario emotivo per parlare con le stelle, per interrogare le comete, per chiedere a ogni pianeta quale sia la sua storia. Ogni suono è un messaggio d’amore inviato al cosmo, ogni riff una domanda rivolta all’ignoto. E, come in ogni incontro umano, non c’è paura né diffidenza, perché la materia dei nostri pensieri è la stessa materia dei pianeti, delle nebulose e dei sogni che ci tengono in vita.
Nel fondo di questo viaggio, “X-ÆON” ci riconnette, allora, alla materia incandescente dei grandi autori di fantascienza degli anni Sessanta e Settanta: alle visioni febbrili di Philip K. Dick, ai mondi sensoriali e poetici di Le Guin, alle città misteriose di Ballard, alle aurore malinconiche di Bradbury. Anche loro, come i Giöbia, ci hanno insegnato che il futuro non è un luogo geometrico o un’equazione di dati, ma un territorio emotivo, dove il sogno e la paura convivono, dove la speranza è un frammento di luce che resiste tra le macerie del nostro mondo. È da lì che nasce la loro musica — e forse anche la nostra ultima possibilità di restare umani: in quell’istante di suono e silenzio in cui l’universo ci guarda, e noi, per un momento, non abbiamo più bisogno di capire, ma solamente di sentire.


























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