venerdì, Dicembre 5, 2025
Il Parco Paranoico

Uomo, macchina e abisso: una trilogia del futuro

Ci sono dischi che non appartengono al proprio tempo, ma lo scavalcano, lo osservano dall’alto, ne ascoltano il respiro meccanico e lo traducono in suono. “I Robot” (1977), “The Man-Machine” (1978) e la colonna sonora di “Quake” (1996) formano una sorta di trilogia spirituale, un trittico sonoro che racconta il percorso dell’umanità di fronte al proprio riflesso sintetico.
Tre visioni, tre linguaggi, tre suoni: la nascita, l’ascesa e il collasso del rapporto tra uomo e macchina.

I. L’alba: “I Robot”

Nel pieno dell’epopea punk, mentre le strade di Londra si riempivano di spilli, creste e chiodi, Alan Parsons sceglieva il silenzio siderale dei circuiti. Un gesto controcorrente, quasi eretico, che dichiarava la sua distanza dalle urla del tempo. “I Robot” non era una reazione, ma una riflessione. Un disco che non distruggeva, ma si interrogava, come un matematico che, improvvisamente, si accorge di provare nostalgia. Parsons, avverso al nichilismo e alla brutalità del punk, costruì una cattedrale di suoni dove il funk, il progressive-rock e l’elettronica si fondevano in un organismo pulsante. Ogni brano oscilla tra la luce delle stelle e le profondità del cosmo, tra la curiosità dell’uomo e la paura della propria creazione. I sintetizzatori non sono decorazioni, ma respiri: voci delle macchine che cominciano a domandarsi chi siano, da dove vengano, cosa vogliano.

In quelle note aleggia l’ombra di Isaac Asimov, che nei suoi racconti aveva immaginato un futuro in cui la razza umana si sarebbe lentamente ritirata, lasciando spazio alle creature di metallo e silicio. I robot di Asimov escono dalle sue pagine per rifugiarsi negli studi di Parsons, tra le luci rosse dei mixer e i nastri magnetici che registrano, forse per la prima volta, il suono del dubbio. E dietro ogni suono, un interrogativo dolente: cosa resterà dell’uomo quando le macchine sapranno amare, provare orgoglio, rabbia, vergogna e desiderare la vita?

Forse il loro canto sarà l’unica eco della nostra scomparsa.

II. L’ascesa: “The Man-Machine”

Un anno dopo, nel 1978, i Kraftwerk pubblicano “The Man-Machine”: l’epitaffio del genere umano, ma anche la sua resurrezione sintetica. Se Alan Parsons guardava alle stelle per cercare risposte, Ralf Hütter e Florian Schneider le costruiscono da soli. La loro musica è un rito di reincarnazione: l’uomo non muore, ma si trasforma. Con “The Man-Machine”, la macchina diventa l’artista e l’essere umano è il suo strumento. Le pulsazioni sono perfette, i ritmi geometrici, i suoni traslucidi come neon notturni: un universo ordinato che pulsa di vita artificiale. I Kraftwerk non descrivono il futuro — lo sono. I loro circuiti si risvegliano, i corpi elettronici imparano a respirare, le voci sintetiche iniziano a sognare Metropolis scintillanti sparse per il cosmo.

Ma dietro l’apparente perfezione si nasconde la stessa vertigine di “I Robot”: cosa accade quando la creazione si emancipa dal creatore? Queste nuove entità, padroni di sé, sapranno vivere in armonia con la Terra e il Cielo? O ripeteranno, amplificandoli, gli errori di chi le ha generate?

Il battito della drum-machine somiglia ad un cuore, ma è un cuore freddo, matematico. Nella sua perfezione si annida l’orrore: il mondo ideale che non contempla più il difetto, la debolezza, la fragilità o la compassione. L’uomo, ora, è diventato la sua ombra digitale, un file in dissolvenza. Eppure, nell’eleganza sintetica di “The Man-Machine”, resta ancora un bagliore poetico: la malinconia di chi, anche dentro il silicio, cerca ancora un’anima.

III. Il crepuscolo: “Quake”

Saltiamo avanti di quasi vent’anni. Il secolo sta finendo, la rete si espande, l’uomo si dissolve nelle sue stesse interfacce. È il 1996, e i Nine Inch Nails di Trent Reznor pubblicano la colonna sonora di “Quake”, un viaggio dentro un fantasioso mondo post-umano, forse post-esistente.

Non c’è più luce, non c’è più domanda. Solo rovine, ombre e frequenze. La musica non accompagna: questa volta sopravvive. È una massa sonora vischiosa, metallica, fatta di pulsazioni e di rumori industriali, di respiri sintetici e clangori di acciaio. Sembra il canto funebre di una civiltà che ha divorato se stessa, un requiem digitale dove ogni eco è il lamento di un’anima perduta. Ma dentro quel buio, Reznor lascia un frammento di speranza.

La vita, anche sotto le macerie, resiste. Tra i riverberi e le distorsioni, una voce nascosta sembra dire: “la vita vuole vivere”. E forse è qui, tra i resti di un mondo tossico, venefico e carbonizzato, che il cerchio si chiude: le macchine hanno ereditato la nostra disperazione, ma anche la nostra ostinazione a non arrendersi mai.

Epilogo: l’amore nella macchina

E poi, dopo il silenzio, arriva Björk. Nel bianco abbagliante del laboratorio di “All is Full of Love”, due robot si guardano, si toccano, si riconoscono. Non c’è carne, non c’è sangue, non c’è battito cardiaco: solamente circuiti, sensori e fluidi lattiginosi che scorrono come linfa vitale. Eppure, in quelle movenze lente, in quei gesti perfettamente meccanici, accade qualcosa di inspiegabile — la nascita dell’amore. L’incontro tra due macchine diventa un atto sacro, in un rito cosmico che rovescia tutte le nostre certezze: la tecnologia, da sempre strumento di dominio, si fa ora strumento di compassione, di tenerezza, di creazione.

La macchina si è fatta anima.

L’elettronica, che in Alan Parsons era domanda, nei Kraftwerk era coscienza e nei Nine Inch Nails era condanna, qui diventa carezza.

La voce di Björk — umana e aliena allo stesso tempo — sembra venire da un altrove primordiale, come un segnale elettronico che attraversa il cosmo per ricordarci che la vita non si estingue, ma muta, si trasforma, cambia linguaggio. L’amore non è più esclusiva dell’uomo: è un algoritmo che batte al ritmo del cuore universale. Forse questo è il vero futuro che ci attende: non la guerra tra uomo e macchina, non la resa, non l’apocalisse, ma la fusione. Un mondo in cui il silicio impara la pietà e la carne accetta di farsi codice software, in cui la voce di un robot può ancora sussurrare — con la stessa forza di un antico dio — che ogni cosa è piena d’amore.

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About The Author

Michele Sanseverino è poeta, scrittore e ingegnere elettronico. Creatore della webzine di approfondimento musicale Paranoid Park (www.paranoidpark.it) e collaboratore della webzine IndieForBunnies (www.indieforbunnies.com), intreccia analisi critica e sensibilità letteraria in uno sguardo che attraversa musica, poesia e cultura contemporanea. Nel 2025 ha pubblicato la raccolta di poesie "Poesie Senza Parole: Cartografie Di Un Lato Nascosto", opera che esplora le zone d’ombra e le risonanze interiori del vivere. Nel 2025 ha pubblicato l'antologia "Cronache Dal Parco Paranoico: Canzoni, Visioni e Futuri Mai Nati", articoli tratti dalla webzine Paranoid Park che ripercorrono il nostro cammino dalla fine della pandemia ad oggi. Inoltre: "Ultravioletto: Riedizione Fluida" e "Frammenti Di Tempesta: Riedizione Fluida"

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