Gli Stereolab sfuggono, da sempre, a qualsiasi tentativo di gelida catalogazione. Ogni definizione scivola via, come acqua tra le dita, ogni etichetta cade nel vuoto. Sono una band che cambia forma, muta la propria pelle, devia le sue traiettoria espressive e sonore — ma resta, romanticamente, fedele a sé stessa. A quella fotografia in bianco e nero che cattura, come una vecchia Polaroid sbiadita, l’essenza elettrica, magica, ingenua e sognante degli anni Novanta. Un’atmosfera sospesa tra Londra e Parigi, tra il bruciante fervore post-rock e le loro suadenti carezze pop di matrice elettronica, tra il rock alternativo più militante ed impegnato e le acide deviazioni krautrock che conducono la band in una dimensione alogica, bizzarra e surreale, dove non esistono confini, né punti fermi, né regole da rispettare.
Il loro spirito ambiguo e nomade, le sovrapposizioni vocali che sembrano dialogare da galassie lontane, le continue oscillazioni tra vibrazioni analogiche e stratificazioni digitali, tra carezze jazzistiche e improvvise accelerazioni sintetiche, hanno sempre dato vita a qualcosa di fluido, di mutevole e di cangiante. Qualcosa che vive sul confine, pericolosamente in bilico tra l’inizio e la fine, tra l’alba e il tramonto, tra la luce e il buio. È come se il loro suono fosse sospeso in un eterno crepuscolo, dove nulla è mai davvero chiaro, eppure tutto è profondamente vivido e pulsante.
Con “Instant Holograms On Metal Film”, il nuovo capitolo discografico, gli Stereolab fanno i conti con il tempo trascorso. Con le inevitabili perdite, con le crepe, con le fratture che il tempo, purtroppo, scava dentro di noi e che, per quanto si tenti di nascondere, restano lì, a raccontare il nostro passaggio fragile e imperfetto. E proprio da quelle fessure filtra una malinconia gentile, mai disperata, che attraversa l’album come un vento tiepido di fine estate. Laetitia Sadier e Timothy Gane continuano a muoversi nel labirinto ostile della nostra epoca, figlia del capitalismo algoritmico e di una politica autoritaria mascherata, subdolamente, da neutralità democratica. Un mondo così freddo, così indifferente, così insensibile, così dannatamente cattivo ed egoista da farci credere che il nostro unico rifugio sia la solitudine, la chiusura, il fare a meno degli altri.
Ma come scriveva Albert Camus, “ci sono più cose da ammirare negli uomini che da disprezzare” — e forse il gesto più radicale, oggi, è ancora quello di aprirsi, di costruire rapporti, di mantenere vivo uno scarto poetico in un sistema che tende a uniformare e omologare tutto. Ed è questo che gli Stereolab tentano, in fondo, di fare: restituirci sia la nostra rabbia che la nostra speranza, sia la nostra mente che il nostro cuore. Un invito a non arrendersi, a non lasciarsi anestetizzare dalla disillusione programmata di questi tempi grigi, a tornare a desiderare, a colorare, a fare rumore. “Instant Holograms On Metal Film” non è più di un disco, deve essere un atto di resistenza lirica e politica, un tentativo di ridare voce a chi l’ha persa, di restituire forma a ciò che il cinismo contemporaneo vorrebbe relegare al passato: il diritto di sognare, di immaginare mondi nuovi, di restare umani nel pieno del collasso emotivo globale.
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