“Songs of a Lost World”, l’ultimo lavoro dei Cure, rinasce come una fenice dalle sue stesse ceneri — non per negare ciò che è stato, ma per trasformarlo. Questa volta, a rigenerarne le membra è la pelle nuova del remix, la materia pulsante dell’elettronica che si stratifica, si espande, si frantuma e si ricompone, come onde su una costa oscura e sconosciuta. Il disco non è una semplice operazione di rielaborazione, ma un atto di reinvenzione affettiva e sensoriale, una mappa parallela per esplorare territori sonori alternativi di canzoni già intrise di malinconia, oscurità e desiderio.
Affidati a mani sapienti e cuori visionari, i brani originali si spalancano a nuove dimensioni. Alcuni remix portano la firma di vere e proprie leggende del clubbing globale — Paul Oakenfold, con la sua maestria nel far danzare persino i fantasmi, o gli Orbital, architetti di labirinti elettronici che sfiorano la trascendenza. Altri brani, invece, vengono trasformati da spiriti inquieti e radicalmente contemporanei: Daniel Avery, Anja Schneider, Trentemøller. Essi non si limitano a reinterpretare, ma scuotono le fondamenta musicali, scolpiscono, contaminano, fanno respirare queste canzoni con un diaframma nuovo, teso e profondo, sensibile al battito primitivo del dance-floor, ma anche al sussurro darkeggiante dell’inconscio.
E poi ci sono loro, gli affini per atmosfera ed intensità emotiva: Mogwai, 65daysofstatic, The Twilight Sad. Non si tratta solamente di remix, ma di vere e proprie mutazioni genetiche. In questi episodi, il suono non viene, semplicemente, spinto verso il futuro, ma traslato in linee temporali parallele, in realtà divergenti nelle quali i Cure non sono più (solo) i Cure, ma qualcos’altro: creature ibride, plasmate da sensibilità sorelle, che ne conservano il cuore e ne ribaltano la prospettiva.
Il risultato non è un’operazione di sintesi, ma una vera e propria costellazione emotiva. Ogni brano è una stella con la propria orbita e la propria inclinazione, eppure tutti seguono una stessa, comune traiettoria: quella che ci proietta oltre. Oltre la stanchezza di un presente che sembra arrancare, oltre le misurazioni millimetriche con cui vogliamo quantificare anche le nostre stesse emozioni, oltre l’angoscia sterile che stritola il nostro tempo in un abbraccio tossico.
In queste versioni, i beat diventano braccia aperte, le ritmiche techno si fanno corridoi di fuga, le scie shoegaze e i venti post-rock ci invitano a perdere l’equilibrio, ad abbandonare la postura del controllo. Ci mostrano, forse, che esiste ancora una via per l’altrove, per ciò che è nuovo, per ciò che non conosciamo ancora. È un invito a vedere con occhi diversi, a sentire con orecchie nuove.
Questi remix non chiedono di tornare indietro, né di celebrare, nostalgicamente, il passato. Al contrario, ci trascinano verso un futuro liquido e multiforme, ci invitano ad accogliere il mutamento come atto di consapevolezza e di libertà. E allora noi, proprio come accade a queste tracce, scegliamo di trasformarci. Scegliamo la mescolanza, il desiderio, la scoperta. Scegliamo la molteplicità, le variazioni, gli incontri improbabili. Come se anche noi fossimo remix di noi stessi, creature in continuo rimescolamento, capaci di rielaborare il dolore e l’amore, la rabbia e la dolcezza, fino a generare un suono nuovo per le nostre anime. In fondo, è questo che la musica ci insegna, che non tutto ciò che è stato deve essere lasciato così com’è. A volte basta cambiare prospettiva, basta un altro sguardo, un altro ascolto, un’altra notte, un’altra sensibilità — e quello che sembrava perduto diventa, ancora una volta, possibile.
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