Se non fosse stato per la musica, probabilmente nessuno si sarebbe preso la briga di continuare a parlare o scrivere di “Singles”, una commedia romantica del 1992 che, a prima vista, sembrava appartenere alla lunga schiera di film leggeri e generazionali destinati a svanire nel tempo. Ma il luogo e l’anno in cui si svolge non sono affatto casuali. Seattle, 1992: coordinate precise di una deflagrazione culturale. È il momento in cui il grunge — quella musica sporca, rabbiosa, intrisa di blues-rock e di malinconia, figlia delle periferie e della provincia, nata in ostinata opposizione al patinato hair-metal degli anni Ottanta — abbandona i margini e si riversa prepotente nel cuore del main-stream.
In quei giorni, nomi come Pearl Jam, Soundgarden e Alice In Chains cominciano a farsi spazio nell’immaginario collettivo, eppure il regista Cameron Crowe era arrivato a Seattle ben prima che questo accadesse. Affascinato dalla città, dalle sue piogge infinite e da quel sottobosco musicale che odorava di Led Zeppelin, Jimi Hendrix e Black Sabbath, Crowe aveva già iniziato a immaginare una storia ambientata tra quelle strade, quando nessuno, ancora, poteva prevedere cosa sarebbe accaduto.
“Singles”, più che il tentativo furbo di cavalcare un’onda nascente, è una lettera d’amore. È il tributo personale di un regista ammaliato da un luogo e da un suono. Una storia che, nelle sue intenzioni, doveva essere scarna, elettrica, ironica e nostalgica, capace di raccontare le fragilità e le illusioni di una generazione che camminava sul pericoloso crinale tra entusiasmo e distruzione, tra desiderio di evasione e bisogno disperato di legami autentici.
Crowe non era soltanto un curioso osservatore, era parte di quel mondo. Fece amicizia con Chris Cornell, pianse per Andy Wood, il frontman dei Mother Love Bone, morto troppo presto, e rimase colpito dalla genuina solidarietà che permeava quel microcosmo di band e di pubblico, amici e coetanei. In quelle comunità, il dolore veniva condiviso, la perdita di un amico diventava un evento collettivo, vissuto in gruppo, a volume forte e distorto, senza alcuna retorica. Da lì nacque l’idea di un film non sul rock, non sulla fama, non sul mito, non sull’eroe perduto, ma sull’amore. Il più vecchio, consunto, maledetto, eppure ancora inafferrabile dei sentimenti. Un amore che, però, doveva avere il grunge come sfondo reale, come polvere nell’aria, come odore nelle notti insonni. Così Crowe coinvolse musicisti autentici, portò gli attori ai concerti, li immerse nel tessuto urbano, sociale ed umano della città, perché capissero e toccassero, con mano, cosa volesse dire vivere a Seattle nel 1992.
Poi, mentre il film prendeva forma, accadde l’inevitabile: il fenomeno esplose, le major si precipitarono a saccheggiare Seattle e dintorni, e anche la Warner, inizialmente scettica e diffidente, cambiò tono. Qualcuno pensò persino di ribattezzare il film con il titolo improprio di “Come As You Are”, per sfruttare l’eco di quella band che, paradossalmente, con la genesi del film non c’entrava nulla. Ma, per fortuna, “Singles” rimase “Singles”, ovvero una storia di legami, di desideri, di passioni, di dolori trattenuti e di sorrisi sghembi, che non aveva bisogno dei Nirvana per essere quello che era.
Alla sua colonna sonora si aggiunsero, invece, i Mudhoney, pionieri di quel sound ruvido e sincero, e il film, senza mai sbancare i botteghini, conquistò, per sempre, il cuore di coloro che quella stagione l’avevano vissuta sulla propria pelle e che avevano amato band come i Mad Season, gli Screaming Trees e i Mother Love Bone. Dunque, per quelli che conservano ancora quelle voci dentro, “Singles” resta un piccolo, ostinato, potente frammento di verità e di bellezza; un film che sa di notti insonni, di magliette sdrucite e di speranze affogate in una birra ed un amplificatore a manetta, una fotografia imperfetta di una generazione che, tra un pezzo dei Soundgarden e un abbraccio rubato, cercava, solamente, il modo meno doloroso di sentirsi meno sola.
Comments are closed.