mercoledì, Dicembre 10, 2025
Il Parco Paranoico

2025, I Dieci Migliori Album

Mik Brigante Sanseverino Dicembre 10, 2025 Playlist Nessun commento su 2025, I Dieci Migliori Album

Onestamente, il 2025 ci lascia in eredità una stagione di buio fitto, una ruggine che s’è depositata sul mondo e che sembra impossibile da grattare via. L’anno si chiude trascinandosi dietro una scia di sangue innocente così lunga da sembrare infinita, un corteo muto di dolore e sofferenze che attraversa continenti e coscienze. Abbiamo davvero imparato qualcosa dal Novecento? Le sue rovine, le sue lezioni scolpite sui corpi e sulle città, oggi sembrano solo fotografie ingiallite, piegate e dimenticate nel cassetto dell’umanità.

Gaza, Ucraina, Sudan: non sono solo coordinate geografiche, né capitoli di un bollettino di guerra, ma luoghi in cui le vite si spezzano ogni giorno, in cui le case crollano e i nomi diventano numeri, in cui l’insicurezza cresce come un’erbaccia incontrollabile e la fuga è l’unico verbo possibile. Sono grida che il mondo ascolta senza più udire. Sono ferite aperte che abbiamo, purtroppo, imparato a normalizzare.

La politica internazionale ha smarrito il linguaggio della diplomazia: ora parla un lessico feroce, fatto di ultimatum e muscoli esibiti, di barriere innalzate e diritti calpestati. Ci muoviamo dentro una geografia di vecchi e nuovi imperialismi: quello americano e quello cinese che si spartiscono il globo come fosse una scacchiera, e attorno a loro altri Paesi — India, Russia, Turchia, Israele, Brasile, Gran Bretagna — che oscillano in base al tornaconto del momento, alle opportunità di predominio, alle brame di potere. Una danza macabra che stritola tutto ciò che rimane intrappolato tra i suoi ingranaggi: popoli, città, speranze, infanzie negate. Soprattutto quelle dei bambini della martoriata e occupata Striscia di Gaza, ridotti a simboli involontari di un mondo che non sa più proteggere nessuno.

E intanto l’Europa — l’Europa dei diritti civili, dell’Illuminismo, del Rinascimento, delle utopie possibili — resta ferma in un angolo, paralizzata da leader incapaci, da vecchi rancori mai dissolti, dai venti di guerra che la spazzano come una campana vuota. Un continente che non serve agli altri e nemmeno a sé stesso, continuamente insultato, provocato, manipolato da criminali di guerra, fanatici, assassini, pazzi travestiti da statisti, servi arroganti del potere e dell’ignoranza.

Dentro questa oscurità, la musica resiste come fa sempre: una brace sotterranea che continua ad ardere anche quando tutto sembra spento. Per questo scegliere i dieci migliori album dell’anno non è solo un esercizio di gusto, ma è un tentativo ostinato di cercare ancora la vita, ancora la bellezza, ancora l’umano — nonostante tutto ciò che il 2025 ha provato a sottrarci.

#10) PORRIDGE RADIO
“The Machine Starts To Sing”
[Recensione]

L’ultimo malinconico cielo, un vorticoso intreccio di nubi purpuree, che il vento tagliente e romantico dei Porridge Radio, con le sue crude atmosfere indie-rock e il suo pop ruvido, aspro, onirico e lisergico, spinge tra i nostri comodi e apparenti rituali quotidiani, oltre i nostri osceni e bellicosi giudizi sommari e la moltitudine di filtri virtuali, dei quali facciamo largo consumo, per correggere, nascondere o dimenticare qualsiasi debolezza, qualsiasi fragilità, qualsiasi ammaccatura e qualsiasi imperfezione. […] Un viaggio che ci ha condotto aldilà delle macchie di un Sole malato e moribondo, aldilà di bambini addolorati ed urlanti, aldilà di uomini e donne vestiti a lutto, aldilà di ogni strisciante forma di finto buonismo, in una dimensione sensuale e selvaggia, concitata e vibrante, nella quale si respira la voglia di rivendicare di ogni spazio, di tornare a ballare la musica new wave, finalmente liberi da ogni litania e da ogni pantomima, mentre le luci del dancefloor si spengono e le ultime parole riportano indietro il braccio del giradischi.

#09) SUEDE
“Antidepressants”
[Recensione]

Illustrazioni sonore in chiaroscuro: così si apre il nuovo capitolo dei Suede, un ritorno che si colloca in un’epoca paradossale, capace di connetterci istantaneamente a livello informatico e, allo stesso tempo, di recidere i nostri legami umani più profondi. Viviamo nell’illusione di aver sconfitto persino il tempo, quando invece ciò che, realmente, si sta dissolvendo e disconnettendo è la nostra umanità. Essa si inabissa in una oscurità densa e letale, dalla quale affiorano frammenti del passato: i Novanta, il grunge, il brit-pop, i rave, un’elettronica ancora analogica e randagia, che non aveva barattato i propri errori e i propri limiti con l’attuale estetica prefabbricata, unidirezionale e perfettamente prevedibile. […] Ecco perché “Antidepressants”, nonostante l’alone nostalgico e accattivante, non è un album brit-pop. È un’opera che guarda altrove, che sprofonda in un immaginario cupo e veemente, più vicino al post-punk dei Magazine e dei Joy Division, a Siouxsie e ai Cure degli anni Ottanta. Qui non c’è alcuna celebrazione della “cool Britannia”, ma piuttosto la sua messa a nudo: l’isola che fu impero si rivela, ancora una volta, simbolo di ingiustizie, di una politica che persiste, anche nel millennio nuovo, con la stessa ferocia coloniale del secolo scorso, difendendo privilegi con le armi e basando il proprio benessere su una distribuzione iniqua delle risorse, reiterando, dunque, logiche predatorie e razziste. La gloria di un impero si trasforma in eco di corruzione e di sfruttamento, in un retaggio che i Suede risputano fuori sotto forma di rumori stridenti, di rabbia compressa, di ansia sonora.

#08) M(H)AOL
“Something Soft”
[Recensione]

La band irlandese si muove in bilico tra punk nervoso, art-rock sghembo e spoken word veemente, per costruire un rituale di resistenza sonora contro una realtà sempre più omologata e anestetizzata. Il disco racconta, attraverso il ritmo ossessivo e le distorsioni taglienti, la lenta dissoluzione dell’essere umano come creatura pensante, unica, singolare e specifica. Stiamo scomparendo — ci stiamo lasciando risucchiare in un magma indistinto, una superficie lucida e riflettente, liscia e sterile, sulla quale però non è più possibile scorgere la nostra immagine, ma solamente il prodotto perfetto e inodore di una manipolazione algoritmica. È una maschera digitale, levigata per aderire, con fluidità, ai protocolli imposti dalla dimensione virtuale dei social media, un volto senza lineamenti che dice tutto e nulla allo stesso tempo.

#07) SHAME
“Cutthroat”
[Recensione]

Il punk-rock degli Shame si apre a nuovi territori, a infiltrazioni elettroniche che non ne intaccano la furia, ma anzi la ingigantiscono, come colonna sonora di un immaginario film apocalittico dove la voce narrante non è quella di un eroe, ma quella della nostra coscienza: un grido che ci inchioda alle nostre responsabilità, che ci impedisce di rifugiarci dietro la sobrietà cinica e asettica dei benpensanti, di quelli che si curano soltanto del loro insignificante giardino. Gli Shame ci dicono di buttarci nella mischia, di restare fedeli ai nostri sogni, di trasformare il caos in un’arma e il disordine in una danza. “Cutthroat” è il loro invito a non chinare la testa, a dare una spallata a tutti i venditori di menzogne che intralciano il nostro cammino. Perché in fondo questo disco non è un semplice album: è una catena spezzata, è un coltello che lacera il velo dell’ipocrisia, è una bottiglia rotta lanciata in faccia al nemico. È punk, nel senso più puro, più viscerale, più necessario del termine.

#06) BDRMM
“Microtonic”
[Recensione]

Una musica incisiva e rivelatrice, che si avvale del perfetto, appassionante e ammaliante miscuglio di sonorità elettroniche, acide e shoegaze, nonché di trame che si perdono nei meandri più oscuri, ossessivi e claustrofobici del post-rock, per poi riemergere, impetuosamente, sulle ali di un pop bizzarro, elettrizzante, schizofrenico e distropico. Ed intanto le nostre anime si frantumano in mille pezzi, come le domande che avremmo dovuto urlare, come le risposte che non avremmo dovuto zittire, mentre lo scorrere del tempo ci rammenta la nostra umana fragilità e un inevitabile ed ostile sudario di rassegnazione e di terrore cade sulle nostre innumerevoli debolezze. […] “Microtonic” è un album significativo e seducente, nel quale passaggi più sognanti, dolci e riflessivi vengono alternati a bassi profondi e ritmiche sincopate, ad un ipnotico e strumentale vento post-rock che riesce a tenerci svegli, a esserci di compagnia, a spingerci a scalare quegli stupidi muri che, noi stessi, abbiamo eretto a protezione di quello che era ed è solamente un grande, enorme, inutile e spregevole vuoto.   

#05) DITZ
“Never Exhale”
[Recensione]

I paesaggi evocati da “Never Exhale” sono paesaggi inquietanti, lugubri ed oscuri; ombre fameliche vengono proiettate ovunque, mentre un potere subdolo, disumano, ostile e rabbioso dà vita ad un regime mondiale basato sul terrore e sulla paura. I Ditz, intanto, tessono le loro trame crude, spigolose e maniacali, spingendo, a seconda dei momenti, su taglienti e claustrofobiche sonorità noise-rock oppure su intrepide, morbose, tossiche e lascive aperture di matrice dance-punk. C’era una linea sottile e, ormai, è stata superata da tempo, adesso gli esseri umani sono finiti in un inferno di corpi contorti, di malattie mentali, di droghe mortali, di inquinamento atmosferico, di impotenza, di violenza e di brutalità.on gli resta, dunque, che affidarsi al sonno effimero, ingannevole e menzognero della rete, aggrappandosi ad immagini e ricostruzioni positive della realtà. Ed è qui, in questa dimensione artificiale, irreale e sintetica, che irrompono le ritmiche martellanti, ossessive e incalzanti di questi dieci brani, perché, prima di qualsiasi tipo di rimedio o di cura, è assolutamente necessario prendere atto delle proprie mancanze, dei propri disturbi, delle proprie disfunzioni e della propria ignoranza. […] Vi sarà qualcosa da salvare? Vi sarà qualcosa che merita ancora i battiti di un cuore? O l’odio ha spazzato via anche ogni più piccolo e prezioso barlume di fiducia e di speranza?

#04) WET LEG
“Moisturizer”
[Recensione]

Dall’isola di Wight — luogo di maree ostinate e di venti che soffiano di traverso — le Wet Leg tornano con “Moisturizer”, un album che abbandona le sponde ruvide e sfrontate del punkeggiare giovanile per approdare su lidi più sinuosi, dove la new-wave si mescola ad un indie-rock consapevole, affilato eppure obliquo, mai accomodante, mai disponibile. Perché, sotto questo nuovo orizzonte di suoni più liquidi e di trame vocali disilluse, resta, ben saldo, il faro punk-rock che ha sempre illuminato, con luce cinerea ed intermittente, il loro percorso: una luce che non guida, ma confonde, che non consola, ma tiene svegli. “Moisturizer” è un disco che rifugge il fascino effimero delle sirene digitali, quelle che oggi cercano di imprigionare idee, sentimenti e corpi in un’enorme stanza asettica di schermi, pulsanti, touch-screen e notifiche lampeggianti. In questa iper-realtà anestetizzante, le Wet Leg si muovono come sabotatrici, cercando di sottrarre spazio, tempo ed attenzione per riversarli in un album che è insieme rifugio e grido di battaglia. […] E allora, a questo istinto famelico, non si può che rispondere con un muro di chitarre distorte, con un ballo scomposto e liberatorio, con canzoni che — come amuleti sonori — trattengono ancora un nome, una passione, un’intenzione precisa. Dentro “Moisturizer” c’è, infatti, anche il ricordo, mai del tutto sopito, degli anni Novanta, ma anche uno sguardo vivo e dissacrante su ciò che ci accade intorno, su quel presente infetto che le Wet Leg hanno deciso di raccontare e di sbeffeggiare a modo loro, con artigli lunghi e sorrisi storti.

#03) STEREOLAB
“Instant Holograms On Metal Film”
[Recensione]

Gli Stereolab sfuggono, da sempre, a qualsiasi tentativo di gelida catalogazione. Ogni definizione scivola via, come acqua tra le dita, ogni etichetta cade nel vuoto. Sono una band che cambia forma, muta la propria pelle, devia le sue traiettoria espressive e sonore — ma resta, romanticamente, fedele a sé stessa. A quella fotografia in bianco e nero che cattura, come una vecchia Polaroid sbiadita, l’essenza elettrica, magica, ingenua e sognante degli anni Novanta. Un’atmosfera sospesa tra Londra e Parigi, tra il bruciante fervore post-rock e le loro suadenti carezze pop di matrice elettronica, tra il rock alternativo più militante ed impegnato e le acide deviazioni krautrock che conducono la band in una dimensione alogica, bizzarra e surreale, dove non esistono confini, né punti fermi, né regole da rispettare. Il loro spirito ambiguo e nomade, le sovrapposizioni vocali che sembrano dialogare da galassie lontane, le continue oscillazioni tra vibrazioni analogiche e stratificazioni digitali, tra carezze jazzistiche e improvvise accelerazioni sintetiche, hanno sempre dato vita a qualcosa di fluido, di mutevole e di cangiante. Qualcosa che vive sul confine, pericolosamente in bilico tra l’inizio e la fine, tra l’alba e il tramonto, tra la luce e il buio. È come se il loro suono fosse sospeso in un eterno crepuscolo, dove nulla è mai davvero chiaro, eppure tutto è profondamente vivido e pulsante.

#02) VIAGRA BOYS
“viagr aboys”
[Recensione]

Un album che riesce a essere tanto onesto quanto surreale, grottesco, affilato, crudo, veritiero e divertente, convinto del suo messaggio e delle sonorità incalzanti che descrivono quella che è una civiltà in decadenza. Una cultura ormai perduta, schiava di un consumismo insaziabile, costantemente in vendita al miglior offerente. Nel mentre, il cocktail tossico di consumismo, di mascolinità morbosa e di revisionismo storico prepara il terreno alla fine imminente. Ma prima che il tutto si consumi, c’è tempo per l’ultimo giro al supermercato: rovistare, affannosamente, tra gli scaffali in cerca di carne geneticamente modificata o, forse, di qualche droga per dimenticare, almeno per un po’, la decadenza fisica, morale e spirituale che ci circonda. […] Le scimmie sono tornate, e la band svedese lo urla con la sua ironia punk-rock. Questi undici brani sono una fiamma che brucia dall’interno, una rivolta consapevole contro una frenesia sociale che ci travolge con la sua stupidità quotidiana e la sua insensata avidità. Ma, nei loro ritmi travolgenti, ballabili, funkeggianti e sintetici, c’è anche un richiamo alla libertà, alle scelte, alle corse spensierate verso l’orizzonte, ai corpi che si abbandonano alla musica e all’amore per un’altra creatura, come un piccolo segno che, nonostante tutto, un senso e un’alternativa sono ancora possibili.

#01) MARUJA
“Pain To Power”
[Recensione]

Un sassofono incalzante, massiccio, potente, quasi animalesco, si innesta, come un cuore pulsante, dentro trame vibranti di funk viscerale, free jazz e noise-rock abrasivo: così si presentano i Maruja nel loro nuovo lavoro “Pain To Power”. Non un semplice disco, ma un manifesto sonoro eterogeneo che urla verità e protesta, che mescola contaminazione, rap e rumore per farsi carne viva di un presente che brucia. L’ascolto ci riporta, con forza, a quell’energia primordiale, coraggiosa e ribelle che, negli anni ’90, aveva incendiato i Rage Against The Machine, a quella stessa sete di libertà e di giustizia che ne costituiva il nucleo musicale, spirituale e concettuale. Ma qui non c’è imitazione: i Maruja raccontano un’altra storia, dentro un tempo diverso, un tempo che, purtroppo, è decisamente più oscuro, più instabile e più devastato. […] In questo scenario dominato dalla paura, dall’odio e dalla diffidenza, i Maruja scelgono di rispondere con un atto di trasformazione. “Pain To Power” è furente esorcismo sonoro: prende il dolore, lo smonta, lo ricompone e lo rilancia come impulso vitale, come energia che possa ricondurci alla ragione, alla consapevolezza, alla conoscenza. E da lì, finalmente, all’amore. Non un amore ingenuo, ma un amore armato di verità e di coscienza, capace di resistere al disorientamento, alla violenza e alla brutalità.

Eccoci, dunque, giunti al momento della nostra playlist paranoica del 2025! Buon ascolto!

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About The Author

Michele Sanseverino è poeta, scrittore e ingegnere elettronico. Creatore della webzine di approfondimento musicale Paranoid Park (www.paranoidpark.it) e collaboratore della webzine IndieForBunnies (www.indieforbunnies.com), intreccia analisi critica e sensibilità letteraria in uno sguardo che attraversa musica, poesia e cultura contemporanea. Nel 2025 ha pubblicato la raccolta di poesie "Poesie Senza Parole: Cartografie Di Un Lato Nascosto", opera che esplora le zone d’ombra e le risonanze interiori del vivere. Nel 2025 ha pubblicato l'antologia "Cronache Dal Parco Paranoico: Canzoni, Visioni e Futuri Mai Nati", articoli tratti dalla webzine Paranoid Park che ripercorrono il nostro cammino dalla fine della pandemia ad oggi. Inoltre: "Ultravioletto: Riedizione Fluida" e "Frammenti Di Tempesta: Riedizione Fluida"

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